Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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— Dica a Slavi che c’inchineremo a Mendelssohn — avevo risposto al segretario, sogghignando fra me. E la mia non era solo una battuta, perché sapevo che genere di pubblico ci aspettava. Così non ero stata sorpresa, due giorni dopo, nel vedermi recapitare un cesto di fiori mandato da Rostropovich, nel quale c’era un bigliettino di sua moglie Elena: «Non solo piena di talento, non solo bella, ma anche capace di annusare il vento! Slavi ti manda i suoi complimenti e ti suggerisce di ripassare Gershwin, poiché il Presidente sarà in sala».

Ritelefonai per dirle che ne sarei stata deliziata. E lo ero. Gershwin è uno dei grandi, anche se altrettanto non si può dire dell’unico concerto per violino composto da un americano. Tuttavia sapevo che al Presidente Reagan non piaceva ascoltare musica straniera.

Elena Rostropovich era una donna simpatica, per quanto non sempre capissi i suoi processi mentali. Ad esempio non riuscivo a sapere se era veramente a conoscenza della relazione fra Dom e me. Stavamo molto attenti a evitare pettegolezzi. E lei non me l’aveva mai lasciato comprendere, con una parola o con un pur lievissimo accenno. Restava il fatto che quando ricevevo da lei un invito a un party di qualche importanza, potevo giurare che lo stesso biglietto era stato inviato anche a casa di Dom in Virginia. I miei erano sempre intestati a Mr. e Mrs. Bowquist. Quelli di Dom al Senatore DeSota e Signora. Non importava se i nostri rispettivi coniugi erano a Chicago, dove Ferdie trascorreva buona parte del suo tempo e Marilyn DeSota praticamente tutto. In quel modo Dom poteva prendere alloggio al mio stesso albergo, dopodiché tornavamo a separarci, lui per le sue faccende e io per il concerto. E quella sera alle undici, al party di Elena, ci capitava d’incontrarci «casualmente» e con espressioni di educata e cordiale sorpresa. Infine, con fare casuale, lei suggeriva che essendo ambedue scompagnati Dom mi desse un passaggio in auto.

Proposta che lui accettava infallibilmente.

Quelle sere erano i momenti migliori che Dom e io riuscivamo a strappare all’eternità. Eravamo diventati esperti nell’arte di apparire in pubblico insieme, senza destar sospetti. Più tardi poi, quando eravamo in privato, le probabilità che l’uno o l’altro dei nostri coniugi ci scoprisse sul fatto erano scarsissime. Ma quando la cosa avveniva a Chicago i rischi erano alti. C’era sempre il caso che qualche conoscenza ci vedesse nel momento sbagliato, nell’atrio di un albergo, in un ascensore o nel ristorante dove ci incontravamo. Non che in altre città fossimo più tranquilli. Spesso Dom trovava valide scuse per volare a Boston, o a New York, o dovunque fossi in tournée, ma eravamo sempre in lotta col tempo. Washington era la migliore… o almeno, quella in cui avevamo imparato a barcamenarci meglio.

Malgrado ciò non la potevo definire perfetta. Conoscevamo gente anche a Washington. Un giorno o l’altro agli orecchi di Ferdie o di Marilyn sarebbe arrivata una voce, o avrebbero avuto un sospetto. E da quel momento in poi sarebbe stata solo questione di tempo. Detective privati? Forse. Perché no? I coniugi traditi non usano necessariamente il guanto di velluto.

E allora l’intera faccenda ci sarebbe crollata sulla testa, con tutto un seguito di avvenimenti molto spiacevoli…

Ma ti prego, Dio, non ancora. — Mai! — fu quel che disse con fermezza Dom colpendo con un pugno i cuscini. Erano le due del mattino, il giorno del concerto, e gli avevo appena espresso la mia preoccupazione.

— Prima o poi dovrà accadere, caro — dissi in tono ragionevole.

— No. Non dobbiamo lasciarci scoprire. — Cercò i pantaloni e cominciò a infilarseli, chinandosi a baciarmi. — Possiamo tirare avanti così finché vogliamo. Ma se pure dovessero metterci in piazza…

Lo interruppi prima che dicesse quella cosa, o cercasse di dirla: — Il Presidente Reagan interverrà al concerto — gli comunicai.

— Si? E con questo?… Ah! — borbottò, e abbottonandosi la camicia annuì saggiamente. — Capisco. Ti seccherebbe urtare la sensibilità del Presidente. Ma se non ci facciamo pescare sul fatto, lei non sarà urtata da nulla. E quand’anche fosse, ci resta sempre l’alternativa di…

— No, non ci resta — dissi, prima che finisse la frase con la parola «sposarci». Perché questo era un argomento che rifiutavo di discutere, sempre, col senatore Dominic DeSota. Riuscivo a vivere col pensiero d’essere infedele a un uomo che mi amava. Ma non avrei sopportato l’idea di estrometterlo dalla mia vita pubblicamente, con l’umiliazione che ciò avrebbe significato per lui.

Così non fui per nulla dispiaciuta quando poco più tardi Dom uscì, diretto nel New Mexico: s’era fatto troppo insistente su quella cosa, e io ero ormai a corto di buoni argomenti con cui contrastarlo. E quella sera a teatro, quando aprii il concerto con quel veloce e sincopato «allegro» del primo movimento, la poltrona a lui riservata nel centro della terza fila era vuota.

Ciò che accadde poco dopo fu del tutto inaspettato, e per chiarirlo meglio devo spiegare qualcosa di quel concerto.

Gershwin morì giovane. Erano circa due anni che aveva cominciato a comporre un po’ di musica per violino, quando un taxi lo investì mentre attraversava la 52 aStrada. Non si può affermare che avesse molta esperienza allorché scrisse questa partitura di Wonder. Anni addietro aveva dovuto assumere Ferde Grofe per farsi fare le orchestrazioni, tuttavia al tempo in cui compose il concerto per violino s’era impadronito dell’arte. Gli strumenti a fiato in legno e le percussioni erano sfruttati da lui in modo caratteristico, non meno che i temi romantici sul violino.

In quel concerto c’era un particolare che mi piaceva, un trucchetto che aveva imparato da Mendelssohn. Mendelssohn non voleva correre il rischio che qualche sempliciotto, fra il pubblico, interpretasse la pausa dopo il primo movimento come il fatto che il concerto era finito e cominciasse ad applaudire. La cosa in sé non era grave, ma ciò che la rendeva preoccupante era la possibilità che metà del pubblico si confondesse sentendo qualcuno applaudire al momento sbagliato, e che l’altra metà s’irritasse a causa degli idioti che stavano disturbando l’esecuzione. Così Mendelssohn trovò un modo per evitare il malinteso: alla fine del primo movimento lasciava aleggiare nell’aria una nota di sostegno, che continuava fino all’inizio del secondo. Dunque non c’era mai quella pausa di silenzio durante la quale il pubblico si agita, e gli uomini che sono lì solo perché la moglie ha insistito guardano nervosamente i loro vicini per capire cosa ci si aspetta da loro, e voi che siete sul palcoscenico sentite piedi che frusciano, sussurri e colpi di tosse. Non di rado ho desiderato che Čajkovskij, Bruch e Beethoven avessero avuto quell’accortezza.

Perciò trovai strano il fatto. Quella volta il sottile, quasi subliminale, mormorio dei tamburi non trattenne il pubblico dal mostrare una leggera agitazione. Vidi una delle ragazze in uniforme del teatro infilarsi in terza fila, passare oltre la poltroncina vuota di Dominic e chinarsi a mormorare qualcosa all’orecchio del senatore Kennedy. Slavi aveva già levato la bacchetta per dare inizio al secondo movimento, ma ciò non impedì a John Kennedy di alzarsi per raggiungere l’uscita in tutta fretta. Intanto che contavo le battute che mancavano all’inizio della mia parte vidi che Jackie mi rivolgeva un sorrisetto e alzava le mani in segno di scusa. Da qualsiasi altra moglie di un senatore l’avrei interpretato come un gesto puramente formale, ma sapevo che nel caso di Jackie la contrizione era davvero sentita. Era la sola veramente colta fra le donne che affiancavano il marito nella sua carriera politica senatoriale. Spesso avevo pensato che sarebbe stata una splendida First Lady, se John avesse avuto qualche voto in più nel 1960.

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