Frederik Pohl - L'invasione degli uguali

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L'invasione degli uguali: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando viene arrestato dall’FBI con l’accusa di aver spiato un segretissimo laboratorio di ricerca, Dominic DeSota è sbalordito, perché lui in realtà in quel luogo non c’è mai stato. Ma quando gli vengono mostrate fotografie e impronte digitali che provano inconfutabilmente il suo crimine, la vicenda si trasforma in un incubo. Il fatto è inspiegabile, a meno che non si voglia credere alla più pazzesca delle ipotesi, e cioè che esista un altro Dominic DeSota, proveniente da... un mondo parallelo. Ma il problema è che ci sono tanti Dominic DeSota quante le infinite versioni di storia contenute nell’universo, e in una di queste qualcuno ha scoperto il segreto del paratempo, e con esso la possibilità di viaggiare tranquillamente da una dimensione parallela all’altra. Tuttavia, lo sfruttamento indiscriminato del paratempo non può sfuggire alla più semplice legge di compenetrazione, e infatti ogni trasferimento fra diverse linee temporali sta per raggiungere il punto critico, in un crescendo di situazioni bizzarre e affascinanti, dove la Casa Bianca sta addirittura per essere attaccata... dall’esercito degli Stati Uniti di una dimensione parallela. E allora qualcuno dovrà a tutti i costi escogitare una soluzione per evitare che l’intero universo precipiti nel caos.
Con questo nuovo romanzo, Frederik Pohl conferma la sua inesauribile vena, e si lancia in un’emozionante avventura sul tema degli universi paralleli, piena di verve e di ironia.

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L’intero distaccamento del Corpo Segnalatori era in uniforme, ma c’erano anche un bel po’ di civili con la fascia rossa al braccio. Riservisti anche loro, richiamati per quell’emergenza, e ovviamente tutti tecnici e professionisti della televisione. Da bravi civili stavano usando al meglio i comfort di quello studio. Nel corridoio qualcuno aveva allestito un buffet, con cibi e bevande d’ogni genere… anche roba calda: dovevano aver liberato e messo all’opera il PX locale.

Mi versai una tazza di caffè, ascoltando la voce del Presidente Brown che proveniva da un monitor. — …e come Presidente degli Stati Uniti, mentre mi rivolgo a voi che pure siete Presidente degli Stati Uniti, e a tutto il popolo americano… — Sembrava un po’ teso, ma la sua voce suonava sicura intanto che leggeva il discorso preparatogli per l’occasione. — …a questo punto della nostra storia ci troviamo a confronto con un sistema dispotico lanciato alla conquista del pianeta… — E poi: — … i legami di sangue, e la comune devozione ai princìpi della libertà e della democrazia… — E così via. Era un discorso piuttosto ben studiato; ne avevo letto il testo il giorno prima. Ma la cosa davvero importante non stava in quelle frasi eloquenti. Stava nel fatto che eravamo noi a controllare la situazione.

La stessa voce proveniva dalla porta aperta della cabina di regia, in fondo al corridoio. Presi la tazza e andai a dare una sbirciata. Non c’era un solo monitor lì: ce n’erano dozzine, e quasi tutti inquadravano il volto serio e grave del Presidente. Ma vidi anche schermi che mostravano altre facce, non meno serie e preoccupate: John Chancellor, Walter Cronkite e un paio di giornalisti che non riconobbi. Stavano già facendo il loro commento. Questo mi lasciò sorpreso, finché non ricordai che il discorso del Presidente durava appena quattro minuti. Era finita la nostra trasmissione in diretta, ed ora il discorso veniva ritrasmesso in differita dalle reti private che, forse colte di sorpresa, s’erano limitate a registrarlo.

Gettai un’occhiata al mio orologio. Mezzanotte, ora locale. Nelle grandi città della costa est erano le due del mattino, ma dubitavo che molti stessero dormendo. E in California la gente che guardava l’ultimo telegiornale della notte stava certo sbarrando gli occhi su una trasmissione che nessuno di loro s’era mai atteso.

Peggio per loro. Cosa li autorizzava ad essere felici e spensierati mentre noi fronteggiavamo il più terribile pericolo mai corso dal mondo libero?

Anche un comandante delle truppe d’assalto qualche volta deve dormire. Potei permettermi cinque ore di sonno. Quando mi svegliai sentii il profumo della pancetta e del caffè. Ero nell’ufficio del capo scienziato, steso sul lungo divano di cuoio del capo scienziato, e il caporale Harris stava deponendo un vassoio sul tavolinetto al mio fianco. — Coi complimenti della sergente Sambok, signore — sorrise. — Ieri notte abbiamo occupato anche il club degli ufficiali.

Le uova s’erano quasi raffreddate nel tragitto fin lì, ma il caffè era caldo e denso. Proprio quel che ci voleva per rimettermi in marcia.

Per prima cosa ripassai dallo studio televisivo. I tecnici militari erano stati raggiunti da tre civili senza contrassegni: una ragazza, una donna anziana e un uomo barbuto d’età imprecisabile. Fermai il capitano del Corpo Segnalatori e inarcai un sopracciglio, agitando un pollice in direzione dei tre. — Loro? — mi rispose. — Sono scienziati, maggiore. O almeno è quel che dicono d’essere. Comunque i loro ordini sono OK.

— Quali ordini?

— Analizzare le reazioni al messaggio del Presidente, dicono. Una specie di indagine politica o scientifica, sa com’è. — Io non sapevo, invece. Si strinse nelle spalle. — Sia come sia, per loro c’è dannatamente poco da studiare. Finora non è arrivata neanche una parola che sia una dal Presidente che hanno qui.

Questo non era il tipo di notizie che speravo di sentire. Dopo un ripensamento aggiunse: — Potrebbe informarsi da Tac-Cinque. — Ma stavo già uscendo diretto alla Casa dei Gatti. Nella piacevole aria del mattino la Base e il deserto apparivano tranquilli. Io non lo ero. Indossavo ancora la tenuta da combattimento, bagnata di sudore (forse non avrei dovuto esser stato così generoso con i miei vestiti di ricambio) e cominciavo a sentirmi preoccupato.

Il Generale Magruder, Facciaditopo, era dove vi sareste aspettati che fosse un generale alle sette di mattina, ancora con la testa sotto il guanciale, ma trovai il colonnello Harlech. Non si trattava di un tipo molto alla mano. Quando gli chiesi di quei tre civili mi gratificò di un grugnito simile a una passata di carta vetrata. — Sono autorizzati, e non è faccenda che la riguardi, maggiore — esclamò. — Qual è la situazione attuale della sua Base?

— Tutto sotto controllo, signore. — O così speravo, visto che non avevo ancora chiamato a rapporto nessuno dei miei. — Dall’esterno non c’è ancora nessun segno di reazione.

— Visitatori non graditi?

— Nessun rapporto in merito, signore. — Almeno, nessuno fatto a me. — Signore? Posso chiederle notizie del Dr. Douglas?

Anche la sua risatina era pura carta vetrata. — È sotto sorveglianza nella sua tenda, e ben poco allegro. Cos’avete incercettato sulla reazione del nemico?

Si riferiva all’ascolto della radio e della TV. — Non ne emerge un disegno chiaro, signore. Si limitano a ritrasmettere il discorso del Presidente. Lo riceviamo forte e chiaro.

Il colonnello emise un suono disgustato che avrebbe potuto essere «quella parola». Harlech era uno dei giannizzeri di Magruder, e come gli altri non faceva mistero di ciò che pensava del Presidente. Brown s’era opposto vigorosamente all’idea di un raid «preventivo»… finché il capo del suo staff non gli aveva sussurrato all’orecchio che le prigioni erano piene di politici che s’erano opposti ai militari circa questioni essenziali alla difesa degli Stati Uniti.

Quando riattaccai il telefono collegato all’altra linea temporale mi chiesi se non fosse il caso di tornare agli studi TV per uno scambio di vedute coi tre scienziati-politici. Sarebbe stato interessante sapere perché, secondo loro, un’America militarmente attiva come la nostra aveva un Presidente di pastafrolla come Jerry Brown, mentre quest’altra, grassa e pacifica, aveva eletto quella sputafuoco della Reagan. Ma io ero un soldato, non uno studioso, e c’erano altre cose che m’incuriosivano maggiormente. Gridai che mi mandassero un’ordinanza, e quando il caporale Harris mise dentro la testa dalla porta gli ordinai di scendere al recinto e di portarmi uno dei prigionieri, il senatore Dominic DeSota.

Seduto lì, nella mia tuta da fatica, era così uguale a me da mettermi in imbarazzo. Non gli avevo ancora tolto gli occhi di dosso, e in quanto a lui mi stava studiando con una certa durezza. Non sembrava preoccupato, o almeno non lo mostrava. Il suo sguardo era fra risentito e interessato, con un velo di freddezza che avevo sempre notato anche in me.

— Tu fai parte delle alte sfere, Dominic — dissi. — Sentiamo. Secondo te come la stanno prendendo?

Prima di rispondere si massaggiò le reni. Anche lui aveva dormito, ma senza dubbio su qualcosa meno confortevole del divano dello scienziato capo. — Parli di quella che può essere la risposta del Presidente Reagan a un’invasione armata?

— Questo è un modo un po’ drastico di considerare la cosa.

— Drastico è il modo in cui l’avete condotta. Cosa sperate di guadagnarci?

— La pace. — Sogghignai. — La vittoria. Il trionfo della democrazia sulla tirannide. Non intendo la vostra tirannide, naturalmente. Parlo del nostro comune nemico, i russi.

Scosse il capo, paziente. — Dom, io non ho nessun nemico russo. I russi non hanno rilevanza nel mondo… il mio mondo. Sarebbero già morti di fame tutti quanti se non li avessimo aiutati, dopo la loro guerra con la Cina.

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