Algis Budrys - Morte dell'utopia

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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«Le cure mediche hanno la precedenza sulla mensa», disse Susiem. «Non vedo perché non possa venire curato prima di andare a mangiare».

«Ho detto di portargli qualcosa!», scattò il dottore. «È denutrito, ha un braccio libero per servirsi, e poi il grado ha i suoi privilegi».

«Se la registri come una ricetta, dottore».

«Sicuro».

«Benissimo», disse Susiem. Qualcosa cominciò a muoversi ronzando in un altro compartimento. «Sto prendendo un carrello».

Per essere una macchina», disse Jackson al dottore, «hai più buon senso di tanta gente».

«Giustissimo», rispose il dottore. «E adesso, togliamo questo schifo dal braccio. Chi ti ha curato… Un veterinario?».

«Un che?».

«Capitano, hai bisogno di ragguagli culturali».

«Cosa sono?».

«Sono quello di cui hai bisogno». Forse il dottore non voleva continuare a chiacchierare; forse aveva pensato di poter tenere occupato Jackson con qualche altra cosa. Comunque, una specie di coltello guizzò lungo il braccio. Recise la fasciatura con il taglio più netto che Jackson avesse mai visto. Aprì anche il braccio, e gli fece passare la voglia di parlare. Jackson restò lì a guardarsi le ossa biancorosate, nel guscio schiuso del braccio. Intorno al punto straziato e arrossato dove il dardo di Red Filson s’era piantato nella giuntura del gomito c’era qualcosa che sembrava putredine.

Intorno all’osso lampeggiarono scintille… Forse di metallo, forse di luce. Sulla giuntura vi fu uno sbuffo di nebbia bianca; poi un risucchio d’aria, e la nebbia sparì, whummph ! e sparì anche la giuntura. Tra le ossa della parte superiore e inferiore del braccio c’era uno spazio vuoto di quattro dita. Altre scintille: adesso i tronconi erano intaccati e perforati, come se li avesse lavorati un fabbricante di bastoni. La parte putrida, nella carne del braccio, diventava sempre più piccola. Tutto il braccio era informicolito. Il fascio di luce sembrava tremolare.

Qualcosa che sembrava un dottore molto più piccolo entrò nella stanza e aprì di scatto la parte superiore. Un fumo caldo colpì Jackson al naso come uno straccio umido e bollente. Non aveva mai sentito un odore così forte in vita sua. Gli saliva per le narici e sembrava riempirgli la testa. Sbatté le palpebre: l’odore lo faceva lacrimare.

Su un piatto c’erano verdure coperte da una sostanza untuosa, una palla bianca, formata da piccole parti che sembravano vermi e una cosa tondeggiante, viscida, che sembrava quello che si poteva trovare sotto una delle case degli amsir, se fosse stato un po’ più secca. Poi c’era un oggetto con un lungo manico sottile e quattro punte curve, un quadrato bianco, ripiegato, che sembrava merletto di amsir ben piallato, e un bicchiere di qualcosa che sarebbe sembrato latte, se non fosse stato così bianco e opaco.

«Il pranzo», disse Susiem. «Bistecca Salisbury, con insalata al roquefort e riso. Buon appetito, capitano». Jackson non riusciva a decidere se doveva guardare il pranzo o il suo braccio.

Il dottore si stava dando da fare parecchio. Minuscole dita delicate e snodate uscirono di scatto dalla stessa sporgenza che emetteva il fascio di luce. Reggevano un aggeggio bianco trasparente che sembrava il disegno di una giuntura del gomito. Le minuscole dita misero a posto i piccolissimi pioli, e in un attimo, al posto del gomito spezzato, ci fu quella cosa bianca, inserita perfettamente. Jackson poteva vedere attraverso quella trasparente, certo, ma sembrava solida e robusta.

«Bene», disse il dottore. «È quello che chiamiamo un supporto innestato. Fra un paio di giorni, tutto intorno si formerà una struttura di cellule ossee, e fra una settimana sarà come nuovo».

Le due metà del braccio di Jackson furono riaccostate dalla pressione della grondaia. Per un istante, la grondaia scivolò avanti e indietro, fino a quando le due metà risultarono perfettamente allineate. Poi si aprì: e al posto del taglio c’era una linea sottilissima, come il graffio scherzoso di una donna. Per la prima volta, Jackson vide un po’ di sangue. Erano goccioline grandi come capocchie di spillo lungo il graffio, già indurite e incrostate. I pezzi tagliati della fasciatura restarono nella grondaia per un istante e poi sparirono con un lampo, una nebbia e un whoomph ! «Mangia il pranzo», disse il dottore.

Jackson provò a muovere il braccio. Il pranzo era ancora tale e quale. Il braccio era meravigliosamente a posto. Lo girò, lo tese, strinse il pugno, premette, cercando di scoprire se si sarebbe ancora aperto a metà. Non si aprì. Era un braccio in condizioni perfette. Jackson batté sul gomito sinistro con le nocche della mano destra. Era sano e solido.

CAPITOLO 11

I

Non sembrava possibile che avesse mangiato. Ma Susiem aveva detto: «Se credi che io butti via quest’ottimo pranzo e mi prenda la briga di sintetizzarti amsir bruciacchiato e pane integrale di grano, quando sei qui perché sei uomo…».

Jackson dovette ammettere che la bistecca Salisbury, il riso e l’insalata al roquefort non erano per niente male. Si leccò le dita. Ma rifiutò quello che Susiem chiamava «latte», e ottenne invece un po’ d’acqua.

Si assestò più comodamente. Il dottore se lo teneva ancora seduto addosso. «Sapete», disse Jackson, «è proprio strano che sia andata così». L’Anziano amsir lo aveva lusingato con tutte quelle chiacchiere, dicendogli che forse li dentro c’era da mangiare e qualcosa per curare il suo braccio, e gli venisse un accidente se non era proprio vero. Fortuna. Era la sua ricompensa perché non si era mai arreso? Chi poteva saperlo e mandargli la fortuna? Dov’era un posto dal quale il distributore della fortuna poteva vedere tutto? Ariwol esisteva davvero, dopotutto? Credi nella fortuna, credi in Ariwol, eh? Meglio non credere nella fortuna. E allora come la chiami quando arriva, eh?».

«Hai altri ordini, capitano?», chiese impaziente Susiem.

«Be’, non so. C’è un posto, qui, dove posso dormire?».

«Non hai nessun bisogno di dormire, adesso», disse il dottore.

« Dormire! », disse simultaneamente Susiem. «Hai attivato tutto e vuoi dormire ?».

«Be’, noi umani dormiamo. Anche quando non ne abbiamo bisogno. Non sai mai quando ti capiterà ancora la possibilità di farlo».

«Gli umani», disse il dottore, «dormono a orari precisi e regolari».

«È giusto», disse Susiem. «La stasi spreca energia !».

Oh, cribbio, non finisce mai, pensò Jackson. Neppure con le macchine. «Be’, senti… Devi avere avuto altri capitani…».

«Direi!».

«Cosa facevi, quando dormivano?».

«Quando dormivano, era sveglio il primo ufficiale. Ma non sai niente degli umani?».

«Ha bisogno di ragguagli culturali», disse il dottore.

«Più di quanto abbia bisogno di un primo ufficiale?», chiese Jackson.

«E l’individuo nella camera di compensazione? Non è quello il tuo primo ufficiale?».

«Lui?». Nella mente di Jackson, in quel momento, Ahmuls era soltanto un klop, klop, klop contro la porta interna. E bastava? Non aveva ancora deciso cosa fare. Ma perché doveva decidere adesso? Non avrebbe dovuto trascorrere lì il resto della sua vita. Essere capitano… Quando le macchine non avevano in mente qualcosa d’altro. «Cosa fa un primo ufficiale? Deve essere un umano molto bravo a maneggiare una lancia, credo. Ma sembra che non ce ne sia un gran bisogno. Voglio dire, tu sei di metallo, dottore, e in quanto a te, Susiem, non so neanche dove sei».

Susiem ridacchiò.

«Bene, questo è decisivo», disse il dottore. «Prescrivo un’università a questo ragazzo. Hai la biblioteca necessaria, vero?».

«I Susiem, evidentemente, hanno tutto», rispose Susiem, mentre il braccio del dottore, con pronta delicatezza, spingeva altre sezioni per bloccare i polsi di Jackson. La sedia cambiò inclinazione, facendolo quasi sdraiare.

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