Algis Budrys - Morte dell'utopia

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Morte dell'utopia: краткое содержание, описание и аннотация

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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«Non è un problema», rispose il dottore.

«Susiem, se lo facciamo entrare, puoi proteggere le tue componenti in quella sala?».

«In una certa misura».

«Bene, allora lasciamolo entrare… Sono stufo di questo posto. Prima la finiamo, e prima potremo muoverci». Chissà se ad Ahmuls piacerà Ariwol.

Salì la scaletta, fino al livello della camera di compensazione. Accostò la faccia alla porta. «Ahmuls! Ahmuls, mi senti?»

«Figlio di puttana».

«Ascoltami… Se ti apro questa porta, cosa farai?».

«Ti ammazzerò, figlio di puttana».

«Ahmuls, ascoltami bene. Forse non lo crederai, ma posso conciarti per le feste».

«No, se ti ammazzo, figlio di puttana».

«Ahmuls, te lo sto dicendo… Mi hanno dato…». Che cosa gli avevano dato? Gli avevano dato un’arma, e lui l’aveva presa.

Al tempo in cui erano stati lanciati Susiem e l’Esperimento di Adattabilità della Vita alle Condizioni Extraterrestri, l’arte del combattimento senz’armi, sulla Terra, aveva raggiunto un punto di sviluppo che rendeva inutili le esercitazioni e superflui i calli del karateka. Il sistema era stato perfezionato e semplificato, tanto che era sufficiente una spiegazione dei punti da toccare. Chiunque avesse una memoria decente per le istruzioni e una discreta destrezza poteva usare con successo il sistema contro un uomo altrettanto esperto ma con i riflessi più lenti, e contro tutti gli inesperti, con rapidità fulminea e risultati sconvolgenti. I riflessi di Jackson non erano pronti come quelli di Ahmuls, ma la sua memoria era svelta quanto il modo in cui Susiem aveva comunicato le istruzioni al suo cervello, e del resto Ahmuls non aveva idea…

«Ah, al diavolo», disse Jackson. «Susiem, apri il portello».

Era sbalorditiva la velocità di quel fenomeno da baraccone, nonostante le sacche di pelle flaccida, i grugniti, lo slap-slap dei grossi piedi, le mani tozze protese dagli avambracci come da un paio di maniche sbrindellate.

Jackson si tese, protendendo l’indice destro, e lo toccò come gli era stato insegnato allo stadio dell’assolato campus gotico di Canterbury. Fu sconvolgente vedere Ahmuls perdere l’equilibrio. Jackson si chinò, prontissimo, toccò la caviglia che riuscì a raggiungere: Ahmuls urlò. Probabilmente non aveva conosciuto spesso il dolore, almeno da quando era diventato abbastanza grosso.

Jackson arretrò. «Ascolta, Ahmuls… Adesso non puoi alzarti per attaccarmi. Mi ascolti?».

Ma Ahmuls poteva alzarsi. C’era gente che camminava con una gamba fratturata… E magari correva, se doveva farlo e se era in stato di shock. Tutto stava nella misura dell’effettiva incapacità fisica introdotta nella loro struttura fisica. Erano capaci di continuare a correre fino a che tutto si disintegrava. Succedeva di continuo, sui campi di football e nell’addestramento dei paracadutisti. Il guaio era che spesso li faceva correre ancora più forte. E adesso Ahmuls era nelle stesse condizioni.

Jackson guizzò, aggirando la carica di Ahmuls. I suoi riflessi erano più lenti, ma il metodo era infallibile contro gli attacchi, purché l’occhio riuscisse a registrarli. Toccò Ahmuls sulle costole. Il fianco di Ahmuls si trasformò in una sacca scorticata di sangue. Maledizione, non sporcarmi!, pensò Jackson, mentre lo evitava di nuovo. Ah, stupido animale! «Arrenditi!», urlò.

Ahmuls lo caricò con un grugnito: «Lasciami stare, lasciami stare!».

Jackson gli toccò entrambe le braccia. Dovette reggere l’urto di Ahmuls, ma lo ricevette dalla parte del fianco ferito dell’avversario: e, del resto, da quel momento Ahmuls non poteva più usare le braccia per avvinghiarlo. Le muoveva, certo, ma si piegavano in troppi punti, e Jackson riuscì a passare in mezzo.

«Fai venire qui il dottore!», urlò.

«Attento alle mie componenti!», gridò Susiem, mentre Ahmuls barcollava.

«Vai al diavolo, tu e le tue componenti!», gridò Jackson. Toccò Ahmuls alla base della schiena e sentì la carne trasformarsi in poltiglia mentre lo shock si irradiava dal punto di contatto, e poi toccò di nuovo lo stesso punto, tanto per stare sul sicuro; questa volta sentì sulla punta delle dita la stessa sensazione che si prova da bambini, quando si spinge un dente da latte fuori dall’alveolo. Ahmuls mulinò le braccia flaccide: ma non aveva più nulla che gli reggesse le gambe e stramazzò, piegandosi su se stesso sopra la caviglia spezzata, tendendo le braccia fratturate per afferrarlo, crollando sul fianco fratturato e poi sulla faccia. Restò accasciato sulle ginocchia, con le braccia protese, la faccia schiacciata sul pavimento, e un occhio rosso che fissava Jackson.

«Va bene, va bene», piagnucolò. Le lacrime trovarono canali nascosti fra le grinze della guancia.

Jackson si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui. «Avevo cercato di dirtelo», mormorò.

«Yuh». Ahmuls avventò il collo, come poteva, rapidissimo, cercando di addentare il polso di Jackson. Jackson gli spinse giù la testa. «Piantala. Per piacere, piantala».

«Yuh. Yuh, va bene, va bene, non mi resta niente». Le sue dita strisciarono verso la caviglia di Jackson, trascinandosi dietro il braccio. Jackson le premette con il ginocchio. Il dottore entrò e si fermò.

«Bene, maledizione», urlò Jackson, «cosa stai aspettando?».

«Non ho l’autorizzazione».

«Sta bene. Secondo le disposizioni veterinarie d’emergenza, dichiaro che questo è un essere alieno prezioso e innocuo in grave pericolo. Ti ordino di procedere e di prestargli le cure mediche nella misura consentita dalle tue conoscenze e dalla tua esperienza!».

I fianchi del dottore si aprirono. «Sissignore. Non è un problema».

Ahmuls aveva desistito dal tentativo di muovere le dita sotto il ginocchio di Jackson. Accanto alla sua faccia, il pavimento era bagnato. «Cosa volete fare? Cosa volete farmi, brutte cose molli?».

«No, no, tutto a posto, Ahmuls», disse Jackson. Con la mano posata sulla testa di Ahmuls faceva movimenti carezzevoli, nel punto dove un amsir avrebbe avuto le trine. «Il dottore ti guarirà. Dovevi ascoltare, Ahmuls. Perché diavolo non sei capace di ascoltare? Io ti voglio bene».

«E dovevi picchiarmi?».

Il dottore raccolse Ahmuls tra le braccia. Era sorprendentemente delicato. Lo sollevò quasi con tenerezza, per fare in modo che Ahmuls stesse comodo. Era davvero di una gentilezza sconvolgente.

Una macchina della manutenzione era già sgusciata fuori dal suo recesso nella parete. Ronzava intorno ai tre, giostrando per raggiungere i punti danneggiati del ponte.

«Aspetta il tuo turno, Susiem», disse rabbioso Jackson, affrontando la macchina della manutenzione come se avesse occhi e orecchi. «Non hai un po’ di discrezione, neppure un po’».

CAPITOLO 12

I

«Dammi un’inquadratura audiovisiva dell’esterno», disse a Susiem, e sedette al posto di pilotaggio.

Susiem girò uno schermo verso di lui. Gli autoparlanti si riempirono dei suoni dell’esterno; il fruscio delle ali, il mormorio del vento, lo scricchiolio di vaste distese metalliche all’aperto. Gli amsir volavano di sentinella davanti al portello, avanti e indietro, con i giavellotti branditi. C’era una quantità di lance spezzate, a terra, sotto la scaletta. Sulla soglia della Spina erano intruppati l’Anziano degli amsir, l’istruttore, e una decina di apprendisti, in pose non essenzialmente utili. Li sentì parlare; regolò con impazienza il comando dell’audio per distinguere le loro parole. Erano desolati e litigiosi.

«E io dico che dobbiamo riconoscere la possibilità che gli intrusi, qui, siamo noi!», stava dicendo uno.

«Taci! Ricordo benissimo un discorso testimoniato, nel quale venne postulato impeccabilmente che, se l’Oggetto distruggeva al semplice contatto quelli della nostra specie, doveva essere ancora più terribile il fato di qualunque essere che avesse lasciato entrare nelle sue fauci!».

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