Algis Budrys - Morte dell'utopia

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Morte dell'utopia: краткое содержание, описание и аннотация

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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«Taci tu! Sono pronto a sfidare le tue conclusioni!».

«Anziano!», disse Jackson, e l’Oggetto ringhiò agli amsir sulla soglia della Spina. «Anziano… stai indietro!».

«Cosa?». Il becco corneo si alzò. I vivaci occhi scuri scrutavano in direzione del portello, in cima alla scaletta.

«Anziano, ho alcune rivelazioni da farti».

Il comunicatore si spense di colpo.

Lo schermo si oscurò, gli altoparlanti tacquero. «Non sei autorizzato a contaminare l’esperimento!», scattò Susiem. «Stai trascendendo la tua autorità e contravvieni direttamente i regolamenti della spedizione. Non sei autorizzato a comunicare dati ai soggetti sperimentali. Tutti i fatti necessari ai soggetti sperimentali sono predeterminati, programmati, e furono introdotti nel sistema molto tempo fa. Un’eventuale ripetizione di questo episodio causerà la tua automatica e immediata destituzione dal comando. L’incidente verrà registrato sul giornale di bordo. Verrà trasferito agli archivi centrali sulla Terra alla prima occasione, dopo il ristabilimento dei contatti con la rete comunicazioni del Progetto. Ti rivolgo un biasimo ufficiale. Sei autorizzato a riprendere le comunicazioni a condizione però, che non effettui ulteriori tentativi di contaminazione».

Lo schermo e gli altoparlanti si riattivarono. «Stai indietro», gridò Jackson all’Anziano. Contò dieci secondi sull’orologio digitale. «Andiamo, Susiem», disse, e con un’esplosione e un rombo e un lampo partirono, portandosi via la speranza di un mondo, mentre tutto intorno cadevano corpi dilaniati di amsir.

II

La Terra era verde, pastorale, con le colline coronate d’olmi, i rari edifici bassi e di un bianco puro. La Terra era verde, bella, ebbra del vino della vita, in una condizione che non era stata raggiunta molto spesso dai tempi in cui per la prima volta le colline della Grecia erano state disegnate così dall’abile matita di Walt Disney.

Non era sembrato un viaggio particolarmente lungo. Jackson ne aveva trascorso una buona parte sul sedile di pilotaggio. All’inizio aveva contemplato le stelle nelle loro grandi panoplie smaglianti, sorprendendosi al pensiero che adesso finalmente capiva cos’erano, baloccandosi con concezioni d’immensità, dicendosi che era tutto immane, e che la creazione era meravigliosa e insondabile. Fantasie del macrocosmo e del microcosmo assediavano la sua comprensione. Tutto quel grande meccanismo a orologeria, quell’esplosione e quella decadenza, quei cicli ed epicicli d’infinito facevano fremere i suoi capillari di brividi di gioia nel constatare la ricchezza della tavola imbandita davanti a lui. Per un po’, credette di comprendere le complessità infinitamente minuscole che sfrecciavano girando su se stesse per formare ogni millimicrocubito di immensità.

E Susiem contribuiva ad alimentare in lui quella sensazione. Gemeva e strideva, fra tonfi e scossoni; la cuccetta di Jackson tremava alle sue vibrazioni. Ogni accensione, ogni scatto di ticchettante attività pareva riflettere un nuovo spasimo dello sforzo di divorare le miglia tra il punto in cui si trovava e le nebulose su cui si posava il suo sguardo.

Ma trascorsero un paio di giorni, e Jackson si accorse che le nebulose non si erano fatte più vicine. Aveva una chiara comprensione intellettuale delle miglia che venivano scandite ogni giorno sugli strumenti di Susiem. Era convinto che avrebbe dovuto calcolare quanti giorni di gemiti, tonfi e scricchiolii di quel meccanismo instancabile sarebbe stato costretto a sopportare prima di arrivare alla nebulosa più vicina. Pensava che un uomo non poteva sopportare più che tanto.

Naturalmente, Susiem poteva sopportarlo in eterno. E solo qualcuno come Susiem poteva sopportarlo in eterno. E solo qualcuno come Susiem poteva avere la voglia di farlo.

«Come va il dottore con Ahmuls?», le chiese, pensando che fosse un modo adatto per spiegare che si sentiva solo tra una miriade di stelle.

«Controllerò… Riferisce buoni progressi. La guarigione è ben avviata, e il paziente riposa. È docile».

«Sì, bene. Gliene sono successe tante».

Disse a Susiem di chiudere di nuovo gli schermi ad ablazione dei finestrini nella cabina di pilotaggio. E per un po’ si fece proiettare nastri della Terra. Scoprì che era esattamente come la ricordava: brulicante di uomini e delle loro opere, incredibilmente bella, echeggiante di lampi di luce e di suoni, fremente di movimento, e cantava di energia nel vento del mattino e della sera.

Jackson creava per se stesso piccoli momenti di ingenuità. Guardava i fiumi scendere precipitosi dalle montagne e scorrere sulle pianure e diceva a se stesso: non ho mai saputo che ci fosse tanta acqua al mondo. Com’è tutto verde! Com’è ricco! Guardava le città alle biforcazioni dei fiumi, i complessi portuali nei delta dove si mescolavano i fiumi e l’oceano, e gridava tra sé: Thalassa! Thalassa! Comparava il volo degli aerei supersonici allo svolazzare degli amsir e fingeva di vedere un lanciarazzi portatile come il bastone da lancio di un semidio. Allungava il collo per contemplare le guglie altissime delle immense città. E gemeva, nel fondo della sua mente: «Ah, Spina!».

Ah, accidenti, disse quasi subito… Essere un uomo con una laurea! E ordinò a Susiem di smettere.

Cosa doveva fare? Jackson consumò un altro pasto. Questa volta fu delizioso, perché adesso sapeva scegliere. C’era persino il vino. Il vino era molto meglio della birra, ma lo lasciava di malumore.

Chiese a Susiem di suonargli un po’ di musica. Lesse i testi della sua biblioteca, limitandosi soprattutto alla narrativa d’evasione… Soprattutto western, all’inizio. La biblioteca di Susiem aveva un indice molto preciso: servendosene con capricciosa noncuranza, Jackson si imbatté in John Carter di Marte , e da quel momento i suoi gusti si ampliarono. Era arrivato alla lotta di G-8 contro la portaerei terrestre del Kaiser quando Susiem gli fece sapere che poteva parlare con Ahmuls.

«Ti senti bene?».

«Si sente benissimo. Tutte le lesioni strutturali sono state riparate e adesso sono guarite. È stato un lavoro massiccio, ma con tutte le cose che io so fare, e tre giorni di sonno, adesso sta benissimo».

Ahmuls era semisdraiato in una cuccetta dell’infermeria, in un angolo. C’erano ombre sulla sua faccia. Ma teneva le mani alte, a incorniciare le guance, e si vedeva la luce scintillare negli occhi aperti.

«Cosa ne pensi di tutto quanto?», chiese Jackson.

«Fa schifo», borbottò Ahmuls. Jackson dovette riflettere prima di riuscire a capirlo… Borbottava così in fretta, e tante sillabe del suo linguaggio erano cadute dalla nitida parlata del Midwest che Jackson ricordava dall’indottrinamento. «Quella macchina-dottore dice che stiamo andando in qualche posto». Ahmuls continuò a borbottare, e Jackson decifrò tutto esattamente: migliorava, con la pratica. «Dove?».

«Già, bene. Sono qui per spiegartelo. Hai finito di cercare di ammazzarmi?».

«Non posso ammazzarti, figlio di puttana».

«Oh, andiamo, Ahmuls. Sono contento che tu abbia smesso di cercare di uccidermi, ma vorrei che non mi chiamassi così. Senti, non è più come è stato per tutta la nostra vita. È diverso».

«Io non sono diverso».

«Be’, io sì».

«Lo dici tu».

«Vuoi ascoltarmi?».

«Devo ascoltarti. Tu puoi ammazzarmi».

Jackson sospirò e fece un gesto in direzione di una sedia. La sedia uscì prontamente dalla parete. Lui sedette, con la sensazione di essere lì da molto tempo. «Bene. Allora ascolta. Prima eravamo in un posto chiamato Marte».

«Amirs», ripeté studiatamente Ahmuls.

«Bene: dunque c’erano due posti dove viveva la gente. Il mio posto e il tuo».

«Un posto solo, dove vivevano gli amsir. Tu non sei gente. Forse io non sono gente. Ma almeno non sono molle come te».

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