Jackson vide Kringle aggrottare la fronte.
La colazione era apparecchiata sull’erba: tutto era disposto in bell’ordine su una grande tovaglia bianca che senza dubbio era stata intessuta sul momento dalle api. I piatti eleganti avevano i colori della terra, dolcemente luminosi, delicatamente modellati in forme che sembravano fluttuare in attesa delle mani, delle dita, delle labbra. Jackson pensò che erano abbastanza fragili da piacere agli insetti, non soltanto all’uomo.
Si disposero sull’erba in atteggiamenti comodi, e Jackson li imitò. Fece colazione con tamales, varie leccornie, Riesling e conversazione, mentre le api di Comp portavano il lichene ad Ahmuls.
Non fecero piatti per Ahmuls. Forse Comp pensava che con quelle mani avrebbe fatto a pezzi qualunque utensile fabbricato dalle api, o forse non voleva produrre oggetti abbastanza goffi da risultare robusti. Ahmuls mangiò con fare burbero, sbirciandoli tutti quanti.
I sensi di Jackson erano presi dal profumo vivace delle donne, dal suono delle parole ordinate e cantate, non borbottate o muggite, o dall’orizzonte di un azzurro perfetto, senza la Spina. Quando guardava Ahmuls, e lo faceva di rado, lo guardava con la coda dell’occhio.
«Non è molto diverso dal modo in cui lo ricordi, vero?», stava chiedendo educatamente Kringle. «Immagino che ti sia fatto un quadro della situazione. Quando Comp raggiunse la soglia dell’efficienza, certi fattori esterni grossolani furono modificati quasi da un giorno all’altro, ma le verità rimasero.
«Abbiamo ancora i vecchi servizi: vitto, abbigliamento — o il controllo dei fattori che un tempo rendevano necessario l’abbigliamento — e abitazioni». Girò lo sguardo sull’erba folta, inarcò le sopracciglia in un’espressione di scusa e sorrise a Jackson.
«Ecco, per l’esattezza la distinzione tra abbigliamento e alloggio è scomparsa. In effetti, dipendeva dalla distinzione tra ambiente favorevole e ambiente ostile, e quando questo fu superato… Ma tu capisci cosa intendo. È molto simile al passato. La gente è la stessa. Noi abbiamo gli stessi sentimenti che tu ricordi… che ricordi della vecchia Terra e anche di Marte, scommetterei, Abbiamo gioie e dolori, rapporti sociali…».
Kringle guardò Ahmuls, Pall, e poi di nuovo Jackson. «Vi sono difficoltà grandi e piccole, come sempre… distinzioni tra individui… livelli di risultati ottenuti… Noi tendiamo a pensare che le nostre vite abbiano un tenore eguale, poiché il servizio esterno è così efficiente. E naturalmente siamo beneducati, poiché ognuno di noi riceve da Comp la sua parte, e nessuno considera un altro come potenziale fornitore o consumatore di beni e servizi. Non abbiamo bisogno di adularci a vicenda, né di parlare con durezza. Mi segui? Ah, vedo che ci riesci. Però…». Kringle aggrottò la fronte guardando un tamale. «Però, se ci portassi su Marte, vedresti che cambiamento! In pochissimo tempo, quelli fisicamente deboli e tardi di riflessi verrebbero eliminati, sì. Ma gli altri, ah, gli altri no. L’animale è troppo resistente, non credi? Immagino che in poco tempo io mi troverei alla testa di un gruppo numericamente più piccolo. Lo ammetto. Ma credo che, se postulassimo una specie di “indice di durezza” — compris? — la misura di una certa qualità fondamentale, che svanirebbe in coloro che vi partecipano in misura insufficiente (come avverrà sempre), ma che crescerebbe negli altri… Capisci dove voglio arrivare? L’“indice di durezza” dei superstiti di questo piccolo gruppo, su Marte, darebbe un totale certo non inferiore, forse superiore a quello attuale del gruppo intero». Kringle sorrise, con fare incoraggiante. «E sarebbe il fattore cruciale, no? La misura dell’umanità. Si potrebbe affermare che, finché l’indice non si abbassa, l’umanità non si sminuisce, indipendentemente da quello che potrebbe essere a ogni dato momento il numero degli esseri umani».
«Ottimo ragionamento», mormorò Durstine, che era vicina a Jackson. Si chinò per prendere un altro boccone dal piatto più vicino ai piedi di Jackson. Girò la testa per guardarlo in faccia e inarcò le sopracciglia dorate con aria interrogativa. Al suo cenno, gli porse il pezzo di formaggio e ne prese un altro per sé. Si muoveva splendidamente; si piegò, prese il formaggio, lo porse, si riassestò in un unico, composto gesto fluente.
Jackson lasciò ammorbidire il formaggio contro il palato. Doveva ammettere che ascoltava appena le parole di Kringle. E probabilmente non era un gran danno, a giudicare da quel poco che aveva sentito. Ma, cribbio, pensò, che meraviglia parlare e mangiare, così. E nessun motivo di preoccupazione, nessun obbligo di uscire in caccia per pagare tutto questo.
«Anche oggi», stava dicendo Kringle, «in un certo senso siamo il risultato selezionato di un numero maggiore, ma forse meno sufficiente. Considera che in larga misura l’impulso procreativo è in realtà un riflesso del panico, che non è una qualità di durezza, e della noia, che è certo un sintomo d’insufficienza. Direi che la popolazione mondiale è all’incirca, oh, un cinque per cento del numero di mille anni fa. È una tragedia? Be’, io rispondo: cosa può contare il numero, se l’indice è invariato?».
Kringle piegò leggermente la testa, sorrise con garbo e centellinò il vino, con le mani raccolte simmetricamente intorno al calice: tutto il gesto era una dichiarazione dell’avvenuto completamento d’una struttura. «Quindi, ora tu ci comprendi».
Be’, forse non questa mattina, ma vi comprenderò, si disse Jackson. Questa è la cosa più meravigliosa… C’è tutto il tempo e tutto il mondo. Il Riesling è delizioso, alla mattina.
Tutto intorno a lui c’erano voci sommesse. Che importanza aveva ciò che dicevano? Era con loro.
Cominciò a ridacchiare, guardando Ahmuls con il lichene in bocca e le api che gli sfrecciavano intorno alla faccia. Chi lo crederebbe, pensò. Dove sono gli amsir, e dove sono tutti coloro che credevano in Ariwol?
Eppure, ripensando al passato, non poteva affermare onestamente di aver mai detto a se stesso che c’era qualcosa di meglio delle Spine. Aveva solo avvertito la sensazione incessante che qualcosa non andasse. E non aveva mai cercato di cambiare le cose.
Aveva solo avuto il buon senso di non permettere che le cose cambiassero lui.
Era tutto lì. E adesso, torna indietro e prova a spiegarlo a Black. O a tua madre. Certo, era semplice. Ti bastava essere Jackson Greytoke, perduto fra i primati, come un castello Tudor che ti aspettava in patria, su un’isola scettrata.
Cominciò a ridere ancora più forte quando comprese che aveva fatto una cosa incredibile, splendida, meravigliosa.
Era lì, di suo diritto. Era uno di loro.
Guardandolo ridere, gli altri sorrisero. La piccola Pall gli porse un calice di vino, e i grandi occhi castani scintillarono di nuovo, come sempre. «È bello, non è vero?», chiese. «Deve essere piacevole».
Questo trascendeva i suoi sogni più arditi. Rimase seduto sull’erba, con le ginocchia sollevate, sorseggiando il vino, e il tocco pesante e familiare della Terra era su di lui.
«Quindi siamo d’accordo, no?», disse Kringle, tendendosi in avanti, e sul suo stomaco muscoloso si formarono tre grinze. Jackson pensò che forse Kringle era un po’ lento, se mai avesse dovuto correre. «Non esistono differenze essenziali tra te e, poniamo, me», continuò Kringle. «Dopo una certa esposizione al tuo ambiente, io, per esempio, finirei per assomigliarti fisicamente. E non ci sono differenze essenziali in fatto di capacità».
Le dita di Durstine avevano trovato il rilievo della cicatrice lasciata dal becco dell’amsir, attraverso la stoffa leggera, sulla spalla di Jackson. Kringle aggrottò fuggevolmente la fronte, sebbene tenesse quasi sempre lo sguardo sul volto di Jackson.
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