Algis Budrys - Morte dell'utopia

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Morte dell'utopia: краткое содержание, описание и аннотация

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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«C’erano due posti dove viveva la gente. Gli amsir e gli umani. Ma venivano dallo stesso posto. Gli amsir avevano un aspetto diverso dagli umani perché qualcuno voleva vedere se si potevano cambiare gli umani».

«Gli umani sono diversi dagli amsir. Gli amsir sono la gente».

E avanti così. Jackson trascorse gran parte del resto del viaggio tentando di spiegare la genetica ad Ahmuls. Ma Ahmuls era convinto di sapere già più di quanto potesse insegnargli chiunque. Stava quasi sempre seduto sulla cuccetta, mangiando piccole confezioni cubiche di lichene che gli venivano preparate da Susìem secondo il menu prescritto dal dottore, ma ascoltava perché Jackson avrebbe potuto ammazzarlo, se non l’avesse ascoltato. Questo, Ahmuls sembrava averlo imparato molto prima di avere Jackson per insegnante.

Finalmente, Susiem annunciò a Jackson che tra poche ore sarebbero atterrati a Columbus, Ohio, e che lui avrebbe fatto bene a cercare di rendersi presentabile.

«Sta bene», disse Jackson. «Ahmuls, hai sentito? Fra poco avrai la possibilità di vedere veramente qualcosa. Vedrai più gente e più macchinari di quanti tu e io possiamo immaginare. Vedrai il posto da dove veniamo tutti. La tua gente, la mia gente, la gente degli amsir. Veniamo tutti dallo stesso posto. Vedrai gente che vive in case alte come duecento case. Vedrai posti che, al confronto, il posto dove vivono gli amsir non sembra più grande di una casa degli amsir di fronte al villaggio intero. Vedrai cose che sfrecciano nel cielo trecento, cinquecento volte più veloci di quanto possa volare un amsir scendendo in picchiata».

Ahmuls chiese: «Quante dozzine fanno?».

«Oh, buon Dio. E va bene. Non imparare. Sto cercando di dirti che vedrai tante cose e non saprai come comportarti. Avrai più possibilità di essere felice di quanto hai mai pensato». Be’, sembrava ragionevole. Quel mondo così grande e così complesso doveva pure aver qualcosa da offrire a quel povero fenomeno da baraccone.

Quel povero, pericoloso fenomeno da baraccone. «E avrai anche tante occasioni di comportarti da stupido e di soffrire. Quindi te lo dico per l’ultima volta: se non vuoi imparare, d’accordo, non sei obbligato a farlo. Ma, per Dio, sappi almeno che sei stupido. Non andare a cacciarti nei guai. Guarda e aspetta. Cammina in punta di piedi. Magari, dopo un po’ capirai che ti sto dicendo la verità. Quando sarai pronto, fammelo sapere, e io ti spiegherò di nuovo».

«Ho già capito tutto», disse Ahmuls, giocherellando con le pieghe di pelle che gli crescevano sulle braccia, dove avrebbe dovuto avere le ali.

III

Poco prima di raggiungere l’atmosfera, Jackson scese in infermeria per stare con Ahmuls: sapeva che il frastuono e i cambiamenti d’accelerazione l’avrebbero sconvolto. Jackson portava la tuta celeste di capitano, con le spalline delle Università Associate.

«Che cos’hai addosso?», chiese Ahmuls.

«Questi sono vestiti», disse Jackson. «Ho detto a Susiem di prepararne anche per te. Ecco». Gli porse la tuta confezionata su misura. «Devi indossarli anche tu. È come una coperta. Serve per proteggerti dal freddo e dal sole».

«Non ti avevo mai visto portare i vestiti».

«Be’, non li portavo. Ma adesso so che è meglio».

«Io non lo so, che è meglio».

«Senti, vuoi che tutti pensino che sei strano?».

«Chi, quella gente molle che hai detto che somiglia tutta a te?».

«Avanti, Ahmuls, vestiti».

«Mi ammazzerai se non mi vesto? Non ho freddo, e non c’è il sole. Non sono abbastanza furbi da entrare in quelle loro grandi case ammonticchiate, quando ce n’è bisogno?». Ahmuls lasciò cadere la tuta sul pavimento.

Jackson scosse la testa. «E va bene, Ahmuls. Va bene». Si sdraiò su un’altra cuccetta. Aveva già la pelle irritata in un paio di punti per l’attrito, e faticava ad abituarsi all’idea di essere così avviluppato alle gambe e all’inguine. Ma era tremendamente imbarazzato al pensiero di uscire dalla nave, in uno spazioporto di gente, con un fenomeno da baraccone tutto nudo al suo fianco. A pensarci bene, era la prima volta in vita sua che si sentiva veramente imbarazzato.

Era una sensazione spiacevolissima. E assorbì una parte considerevole della sua attenzione mentre la nave scendeva. Ahmuls continuò a piagnucolare e a dibattersi sulla cuccetta. Che ne sarà di lui?, si chiese Jackson.

Ma la Terra era verde e pastorale, con le colline coronate d’olmi, i rari edifici bassi e di un bianco puro. «Questo è lo spazioporto delle Università Associate», disse Susiem, mentre Jackson guardava dal Portello aperto della camera di compensazione, come un bambino che ha appena visto un dardo colpire di sbieco un bersaglio e rimbalzare via. «Vi sono stati cambiamenti sociali sulla Terra, dopo il mio ultimo contatto con il Progetto. Mi è stato assicurato che verrai informato di tali cambiamenti da un’altra fonte. Tu e il tuo compagno dovete sbarcare immediatamente da questa nave, poiché non è più classificata abitabile. Attenti tutti! Il capitano scende a terra!».

«Addio, amici», disse il dottore, mentre Jackson e Ahmuls si calavano giù per la scaletta. «Non preoccuparti, Ahmuls… Il tuo menù è registrato. Mi è stato riferito che quando avrai fame non dovrai fare altro che dirlo a voce alta».

«L’ho sempre fatto», disse Ahmuls.

Jackson alzò lo sguardo verso Susiem. La nave stava cominciando a emettere un suono vibrante. Notò uno sciame di insetti colorati, danzanti, che turbinavano intorno all’estremità della prua. Sfrecciarono come proiettili dalla cima della collinetta più vicina, in una fiumana che si addensò rapidamente, si divise per passare fra i tronchi e si radunò sempre più appassionatamente intorno alla nave. Il suono vibrante aumentò di volume, e Jackson vide che adesso Susiem era smussata. La prua era scomparsa. Sotto il suo sguardo, gli insetti, volando in una spirale serrata, divorando un altro strato di metallo dello scafo, e poi le girarono di nuovo intorno, consumando un poco di più a ogni passaggio, transitando molto rapidamente. Era come un esercito di termiti pazze che distruggesse la casa di Elmer Fudd.

Alcuni insetti si staccarono da Susiem e sfrecciarono verso il suolo. Uno, molto vicino, sembrava eseguire un’azione tipica: aveva in bocca un piccolo pezzo di acciaio per astronavi, e stava girando su se stesso come una trivella. Penetrò per poco meno di un metro nel terreno, a giudicare dalla velocità, poi risalì con le mandibole vuote e sfrecciò via immediatamente per andare a prendere un altro frammento.

Insetti più grandi scesero dal cielo, penetrarono negli spazi dei ponti e tra le componenti, dietro le paratie sventrate. Ripartirono ronzando, trasportando alcune componenti tra le appendici a tenaglia e gettando via quasi tutte le altre che caddero in una scia, al di là della rimpicciolita Susiem, con tonfi secchi sopra l’erba folta e verde e ben tagliata e i delicati fiori selvatici. Insetti che si muovevano al suolo e altri esseri metallici dello stesso tipo attendevano per raccoglierle: le facevano a pezzi, ne seppellivano alcune, e altre le trangugiavano come se possedessero un apparato digerente.

«Ehi!», gridò Jackson, cercando di comunicare con Susiem prima che sulla Terra non restasse più nessuno in grado di spiegargli quel che stava succedendo. Ma ormai era troppo tardi. Susiem e il dottore e il robot che serviva i pasti e il robot addetto alla manutenzione e tutto il resto, eccettuata la tuta di Jackson, erano morti e inutili. Be’, no, non inutili. Una quantità di minerali preziosi era stata appena restituita al suolo della Terra.

Ahmuls si guardava intorno. «Sta arrivando gente», disse. «E non è mica vestita».

CAPITOLO 13

I

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