Non c’era niente da fare, potevo solo aspettare. Mi avvicinai alla finestra e fissai l’oceano rosso e nero, senza vederlo. Mi venne in mente di andare a rinchiudermi in uno dei razzi all’aeroporto, ma non lo pensai seriamente, era troppo stupido; prima o poi sarei dovuto uscire. Sedetti accanto alla finestra e tirai fuori il libro lasciatomi da Snaut. C’era ancora luce sufficiente, colorava di rosa le pagine, tutta la camera era arrossata. Si trattava di una raccolta di articoli e memorie di qualche valore, a cura di un tal Otto Ravintzer, laureato in filosofia. A ogni scienza non manca mai di affiancarsi una pseudoscienza che ispira strane distorsioni nelle menti di un certo tipo; l’astronomia ha nell’astrologia la sua caricatura, la chimica l’aveva nell’alchimia, ed era inevitabile che la nascita della solaristica fosse accompagnata da una vera alluvione di elucubrazioni aberranti. Ravintzer aveva alimentato il suo libro con questo tipo di nutrimento, facendolo precedere, è giusto dirlo, da una introduzione in cui si dissociava da quel panoptikon . Egli semplicemente considerava, non senza ragione, che una raccolta del genere potesse costituire un valido documento dei tempi per lo studioso sia di storia sia di psicologia.
Il rapporto di Berton occupava nel volume un posto piuttosto ampio. Era composto di vari capitoli. Il primo era costituito da un estratto del libro di bordo dello stesso Berton, molto laconico.
Dalle ore 14.00 alle 16.40, ora convenzionale della spedizione, le annotazioni erano scarne e negative.
« Altezza 1000 (o 1200, o 800) metri, nessun avvistamento, oceano deserto .» Questo era ripetuto più e più volte.
Poi, alle 16.40: « Si leva una nebbia rossastra. Visibilità 700 metri. Oceano deserto ».
Ore 17.00: « Nebbia più fitta, silenzio, visibilità 400 metri, con schiarite. Scendo a 200 ».
Ore 17.20: « Sono nella nebbia. 200 di quota, visibilità 2440 metri, silenzio. Salgo a 400 ».
Ore 17.45: « 500 di quota, una fascia di nebbia fino all’orizzonte. Nella nebbia, delle aperture a imbuto, attraverso le quali si vede la superficie dell’oceano. Qualcosa succede.
Cerco di entrare in uno di quei tubi ».
Ore 17.52: « Vedo una specie di gorgo. Espelle schiuma gialla. Sono circondato da un muro di nebbia. 100 di quota.
Scendo a 20 ».
Qui terminava l’estratto del libro di bordo di Berton. Il seguito di questo rapporto era la cronistoria della sua malattia, o meglio il testo delle sue deposizioni, dettate da Berton e interrotte dalle domande della commissione.
BERTON : Quando sono sceso a trenta metri, è stato molto difficile mantenere la quota, poiché in questi spazi circolari senza nebbia soffiava parecchio vento. Ho dovuto concentrarmi sui comandi di guida e dunque, per un periodo di dieciquindici minuti, non ho potuto guardare fuori. Per questo motivo sono entrato involontariamente nella nebbia, un forte colpo di vento mi ci ha spinto. Non era una nebbia normale, era una materia colloidale in sospensione, direi, che mi ricoprì completamente i vetri e per pulirli penai molto. Era molto viscosa. Intanto i giri erano diminuiti del trenta per cento a causa della resistenza che l’elica incontrava, e cominciavo a perdere quota. Poiché ero molto basso e temevo di capottare sulle onde, ho dato gas. L’apparecchio non è risalito. Avevo ancora quattro razzi acceleratori. Non li ho usati pensando che la situazione poteva peggiorare ancora e che avrei potuto averne bisogno. A regime massimo si è prodotta una forte vibrazione; ho pensato che quella materia collosa si stesse appiccicando all’elica. Il contatore di rendimento era quasi a zero e non potevo farci nulla. Dal momento in cui ero entrato nella nebbia non vedevo più il sole, ma la sua direzione dava una fosforescenza rossa. Mi spostavo continuamente con la speranza di raggiungere uno di quegli spazi senza nebbia e, in capo a mezz’ora, ci sono riuscito. Sono entrato in uno spazio libero, quasi circolare, del diametro di qualche centinaio di metri. Le pareti di nebbia giravano vorticosamente, come per effetto di correnti ascendenti molto forti, perciò cercavo di tenermi nella zona centrale. L’aria in quel punto era più calma. Ho osservato allora un cambiamento sulla superficie dell’oceano. Erano scomparse quasi completamente le onde e il fluido di cui è composto l’oceano diventava quasi trasparente, con scie fumose; queste andavano dissolvendosi e in breve tutto si è schiarito. Potevo vedere fino a una profondità di venti metri. Lì si condensava un fango giallo, che saliva a filamenti; quando raggiungeva la superficie assumeva una lucentezza vitrea, cominciava a girare, a schiumare e ad addensarsi: somigliava molto a zucchero caramellato. Questo fango o liquido formava grumi, protuberanze sulla superficie dell’oceano, creando moltissime e stranissime forme. Cominciavo di nuovo a essere spinto contro la parete di nebbia, perciò ho dovuto per qualche minuto dare gas e governare.
Quando ho potuto guardare nuovamente fuori, ho visto sotto di me qualcosa che assomigliava a un giardino. Sì, giardino.
Ho visto alberelli nani, siepi e vialetti, irreali, e tutto ciò era fatto di quella sostanza che si era quasi solidificata in un gesso di colore giallo. Sono sceso quanto più potevo per vedere esattamente.
DOMANDA : Gli alberi e le piante che hai visto avevano foglie?
RISPOSTA DI BERTON : No. Era una forma sommaria, come fosse un modellino di giardino. Ecco, sì, un modellino.
Così sembrava. Un modellino ma in grandezza naturale. Un istante dopo, tutto ha cominciato a rompersi e, attraverso fessure nere, sgorgava a fiotti sulla superficie quel liquido denso che in parte colava e in parte si solidificava. Tutto ha cominciato ad agitarsi energicamente, si è coperto di questa materia e, a parte ciò, non ho visto altro. Contemporaneamente la nebbia ha cominciato a schiacciarmi da ogni parte: perciò ho aumentato i giri e sono salito all’altezza di trecento metri.
DOMANDA : Sei proprio sicuro che ciò che hai visto ti ricordava un giardino e nient’altro?
RISPOSTA DI BERTON : Sì. Ho notato diversi particolari; ricordo, per esempio, che in un certo punto c’era come una fila di scatolette quadrate. Mi è venuto poi in mente che potevano essere alveari.
DOMANDA : Ti è venuto in mente dopo? Ma non nel momento in cui le hai viste?
RISPOSTA DI BERTON : No, no, perché tutto sembrava di gesso. E ho visto ancora altre cose.
DOMANDA : Quali cose?
RISPOSTA DI BERTON : Non posso dire quali, perché non riuscivo a vedere con precisione. Ho avuto l’impressione che, sotto alcune di quelle piante, ci fossero oggetti, come calchi in gesso dei nostri attrezzi da giardinaggio, di forme lunghe, con denti sporgenti. Ma di questo non sono molto sicuro. Dell’altro, sì.
DOMANDA : Non hai pensato che fosse un’allucinazione?
RISPOSTA DI BERTON : No, pensavo fosse un miraggio.
Alle allucinazioni no, perché mi sentivo molto bene, e anche perché in vita mia non avevo mai visto niente di simile.
Quando sono salito a trecento metri la nebbia sotto di me era tutta a buchi, come un formaggio. Da uno di questi buchi ho visto ondeggiare l’oceano. Negli altri qualcosa si muoveva.
Sono sceso fino a uno di questi punti e all’altezza di quaranta metri ho visto, ma solo superficialmente, una parete. Era la parete di un enorme edificio e aveva delle aperture rettangolari in fila come finestre, sembrava che in qualcuna di esse si muovesse qualcosa; ma di questo non sono molto sicuro. La parete ha cominciato ad alzarsi e a emergere dall’oceano. Sopra di essa scivolavano a cascata quel liquido e delle forme mucose, come mucchi di vene. All’improvviso si è spaccato in due ed è crollato in fretta, scomparendo di colpo. Ho portato di nuovo in quota l’apparecchio, e volavo sopra la nebbia, quasi sfiorandola col mio carrello. Ho visto un altro imbuto: era parecchie volte più grande di quello che avevo osservato prima.
Читать дальше