Traduzione di Eva Bolzoni.
Stanislaw Lem, 1961.
Titolo dell’opera originale: «Solaris».
Alle diciannove, ora di bordo, passai in mezzo ai meccanici, fermi accanto al pozzo di lancio, e per la scaletta a mano scesi nella capsula. Ci stava giusto un uomo, con lo spazio appena sufficiente per muovere i gomiti. Una volta avvitata sulla paratia la bocchetta del mio sistema pneumatico antiaccelerazione, la tuta si gonfiò e da quell’istante non potei più fare neanche il minimo movimento. In posizione eretta, anzi, direi sospeso in un cuscino d’aria, ero tutt’uno con lo scafo.
Alzai gli occhi e vidi, attraverso il vetro dell’oblò, la parete del pozzo e, sopra, la faccia di Moddard. Subito quell’immagine sparì; scese il buio: si era chiuso lo schermo di protezione. Intanto gli inservienti stavano sistemando il cono antitermico. Udii otto volte il fischio degli avvitatori elettrici che stringevano i bulloni. Poi il sibilo dell’aria che sfuggiva dagli ammortizzatori, raggiunta la pressione di esercizio. La mia vista si stava adattando all’oscurità, cominciavo a intravedere il quadrante verdeazzurro dell’unico indicatore presente nell’abitacolo.
— Pronto, Kelvin? — risuonò negli auricolari.
— Pronto, Moddard — risposi.
— Non devi preoccuparti di niente. Della manovra si occuperà la stazione — disse. — Buon viaggio.
Prima che potessi replicare, udii uno scricchiolio e la capsula tremò. Tesi i muscoli, istintivamente, ma non accadde nulla.
— Quando si parte? — chiesi, mentre udivo un rumore simile a quello dei sassolini che colpiscono un tamburo.
— Sei in volo, Kelvin. Buona fortuna! — mi giunse chiara la voce di Moddard.
Prima che me ne rendessi conto, si aprì una fessura nello schermo di protezione, all’altezza dei miei occhi, e finalmente scorsi le stelle. Cercai di rintracciare l’Alfa dell’Acquario, verso cui si allontanava il Prometheus , ma non riconobbi alcuna costellazione. In quel settore della Galassia il cielo non mi diceva niente, quello che vedevo al di là del vetro era solo uno sciame di stelle sfavillanti ma anonime. Attesi che ne comparisse una più grande delle altre, ma presto non potei più distinguerle. A una a una tutte impallidivano fino a svanire, si confondevano in un’unica macchia rossiccia e luminosa, la sola indicazione del tratto che avevo già percorso.
Rigido, avvolto nel cuscino pneumatico, volavo nello spazio a una velocità vertiginosa, ma mi pareva di essere fermo. La sola sensazione che tradiva il passare del tempo era il calore che aumentava, lento, ma inesorabile.
Poi sentii un suono stridente, come di metallo che striscia contro un vetro bagnato. Il mio volo era finito, era iniziata la manovra d’attracco. Non avrei notato il cambiamento di direzione se non avessi visto le cifre che saltellavano sul quadro degli strumenti. Le stelle erano sparite da tempo, dal vetro scorgevo solo un chiarore debole e rossastro che pareva stendersi ininterrotto. Ogni rumore era cessato, sentivo solo il battito accelerato del mio polso. Il soffio fresco del condizionatore mi colpiva la nuca, ma la mia faccia scottava.
Rimpiangevo di non avere visto il Prometheus . Doveva essere già fuori campo quando era avvenuta l’apertura automatica dello schermo metallico che riparava l’oblò.
La capsula sobbalzò come per un forte urto. Due volte.
L’intera struttura vibrò e anche se filtrato dagli strati isolanti esterni e dal cuscino d’aria in cui ero avvolto, il fremito mi penetrò fin dentro il corpo; il contorno verdeazzurro delle cifre, sul quadro degli strumenti, parve tremare e moltiplicarsi, il suo chiarore allargarsi in tutte le direzioni. Ma io lo osservavo senza paura. Dopo un viaggio così lungo non ero certamente disposto a mancare il bersaglio!
— Stazione Solaris — chiamai. — Stazione Solaris, stazione Solaris! Mi pare di essere fuori rotta, correggete la direzione della capsula. Stazione Solaris, qui capsula in arrivo da Prometheus . Passo.
Mi era sfuggito di nuovo un momento importante, quando si vedono spuntare i pianeti. Solaris era già davanti a me, piatto, immenso. Eppure, dall’aspetto della superficie, stimavo di essere ancora molto lontano. O meglio, molto in alto, poiché avevo oltrepassato quell’inafferrabile linea di demarcazione a partire dalla quale vediamo come un’altezza la distanza che ci separa dalla superficie di un corpo celeste. Cadevo. E adesso ne avevo la sensazione, anche a occhi chiusi.
(Li aprii subito, volevo vedere quanto più possibile.) Aspettai in silenzio per qualche secondo, poi ripetei la chiamata. Anche questa volta non ottenni risposta. Negli auricolari si susseguivano i crepitii dell’elettricità statica. In sottofondo c’era un brusio così sordo e basso da parermi la voce stessa del pianeta. Poi il cielo color arancione venne coperto da un velo di nebbia, l’immagine dietro il vetro si oscurò. Istintivamente contrassi i muscoli, per quanto lo consentiva la tuta pneumatica, prima di capire che stavo semplicemente attraversando un banco di nubi; un attimo più tardi, la nebbia si sollevò, come aspirata verso l’alto. Continuai a planare, ora nel sole, ora nell’ombra perché la capsula girava sul proprio asse verticale, e infine, dietro il vetro, comparve l’enorme disco solare, che pareva arrivare da sinistra e allontanarsi a destra.
Finalmente mi giunse dagli altoparlanti una voce lontana, disturbata dal brusio e dalle scariche.
— Stazione Solaris a volo in arrivo, stazione Solaris a volo in arrivo. Prepararsi per l’atterraggio a tempo zero. Ripeto, prepararsi per l’atterraggio a tempo zero. Attenzione, comincio il conto alla rovescia. Duecentocinquanta, duecentoquarantanove, duecentoquarantotto…
Tra una parola e l’altra c’erano scatti e scricchiolii, segno che il messaggio veniva da un sistema automatico. La cosa era piuttosto strana. Di solito, nelle stazioni spaziali, tutti corrono a salutare i nuovi venuti, specialmente se arrivano dalla Terra. Non ebbi il tempo di riflettere, perché il sole, che fino a quel momento si era limitato a girare attorno a me, si spostò all’improvviso e comparve ora a destra ora a sinistra, come se danzasse sull’orizzonte del pianeta. Io dondolavo come un pendolo, mentre la superficie del pianeta, coperta di solchi violacei e neri, si alzava davanti a me come una muraglia. La testa mi girava, ma scorsi ancora un disegno a scacchi verdi e bianchi: il reticolo di avvicinamento alla stazione.
All’esterno della capsula si staccò con uno schiocco la lunga collana dei paracadute; si aprì con una serie di strattoni e il rumore che si accompagnò a quelle manovre mi ricordò in modo irresistibile qualcosa di assolutamente terrestre. Dopo tanti mesi udivo di nuovo il fischio del vento.
Da quel momento in poi, tutto si svolse molto in fretta.
Fino ad allora avevo avuto la sensazione di cadere, ma ora ne ebbi la prova visiva. La scacchiera verde e bianca si ingigantì di colpo; vidi che era dipinta su uno scafo argentato, scintillante, a dorso di balena, con i fianchi irti di sottili antenne radar. La colossale costruzione metallica, forata da varie file di portelli scuri, non posava sulla superficie del pianeta, ma rimaneva sospeso a mezz’aria e proiettava sullo sfondo scuro un’ombra ellittica, di un nero ancora più intenso. Al tempo stesso riuscii a distinguere i solchi marrone dell’oceano, che parevano in lieve movimento; le nubi si alzarono di colpo, contornate di un accecante bordo scarlatto, in un cielo che si mostrava negli interstizi lontano e piatto, grigio e livido; poi tutto sparì; la capsula rotolava su se stessa.
Con un ultimo strattone, tutto si raddrizzò. Dalla stretta apertura del mio oblò tornai a vedere l’oceano, e le creste delle onde mi parvero brillare come argento vivo. Con uno schiocco, i cavetti e gli anelli dei paracadute si staccarono e volarono via lontano, sopra le onde, portati dal vento; la capsula dondolò dolcemente, con il movimento al rallentatore che gli imponeva il campo magnetico artificiale attivo, e scivolò verso la stazione. L’ultima cosa che riuscii a vedere furono i ponti di lancio e le antenne paraboliche di due radiotelescopi, solidamente fissate ai tralicci d’acciaio.
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