Stanislaw Lem - Solaris

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Il pianeta Solaris, ad anni luce dalla Terra, è formato da un unico immenso oceano e sembra possedere strani poteri.
E’ capace, infatti, di penetrare nella mente degli astronauti che lo stanno studiando ed evocare immagini del loro passato. Immagini che si trasformano in veri e propri esseri viventi, in grado di ragionare e provare sentimenti. Il pianeta è forse abitato da un’intelligenza superiore? Ed è possibile una comunicazione mentale tra l’uomo e il pianeta senziente? Sono questi i tormentosi interrogativi che si pongono i protagonisti della missione, le cui vite risulteranno sconvolte.
Capolavoro di Stanislaw Lem, «Solaris» è un romanzo fondamentale nella fantascienza di tutti i tempi. Ed è soprattutto un’opera che con uno stile magistrale si sofferma non tanto sui misteri dell’universo quanto sui temi dell’identità, sull’ignoto che è in noi, come sfida ai limiti della conoscenza umana. Dopo aver ispirato nel 1972 il regista russo Tarkovskij, «Solaris» è ora un film dell’americano Steven Soderbergh.
Nella parte di Kelvin, l’astronauta che indaga su quanto accade nella stazione spaziale, uno degli attori più amati di Hollywood: George Clooney.
Stanislaw Lem, polacco di Leopoli, trascorre la sua giovinezza conoscendo la terribile dominazione nazista.
I suoi romanzi, tra cui «Pianeta del silenzio», «Eden», Pace al mondo», sono opere originali che affrontano soprattutto il tema etico del progresso tecnologico e la responsabilità delle scelte esistenziali dell’uomo. Lem è probabilmente il più importante scrittore di fantascienza non di lingua inglese. I suoi libri sono stati tradotti in trenta paesi e hanno venduto più di venti milioni di copie.

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A un certo punto, mentre mi muovevo, sentii la forma piatta del registratore che mi premeva sulla coscia. Vero. Gibarian. La sua voce era incisa sul nastro. Non mi era venuto ancora in mente di ascoltarla. Era tutto ciò che avrei potuto fare per lui. Estrassi il registratore per nasconderlo sotto il letto. Sentii un fruscio e un leggerissimo scricchiolio della porta che si apriva: — Chris…? — percepii nel silenzio una voce che era quasi un sussurro. — Sei qua, Chris? C’è tanto buio.

— Non importa — dissi. — Non aver paura, vieni.

7. IL CONSIGLIO

Ero steso supino, con la sua testa sulla spalla, e non pensavo a niente. Le tenebre che riempivano la camera prendevano vita. Udivo dei passi. Le pareti sparivano. Qualcosa si accumulava sopra di me, sempre più alto e senza limite. Trafitto da parte a parte, rinserrato senza essere toccato, ero coagulato nelle tenebre, ne sentivo la trasparenza acre, che sostituiva l’aria. Molto lontano udii il mio cuore. Chiamai a raccolta tutta l’attenzione, tutte le forze residue, nell’attesa dell’agonia. Non venne. Rimpicciolivo, e l’invisibile cielo senza orizzonte, spazio informe privo di nuvole e di stelle, si allontanava, si ampliava, cresceva, prendendomi come centro. Cercai di rintanarmi, là dov’ero sdraiato, ma non c’era più niente sotto di me. Con le mani mi coprii il viso. Non l’avevo più.

Le dita, chiudendosi, vi passarono attraverso. Volevo gridare, urlare… La camera era grigioazzurra. Gli arredi, gli scaffali, gli angoli erano come isolati fra larghe strisce opache, informi e senza colore. Un bianco più chiaro della perla appariva in silenzio da dietro la finestra. Avevo il corpo inzuppato di sudore, guardai di lato, lei mi stava osservando.

— Ti si è intorpidito il braccio?

— Cosa?

Alzò la testa. Aveva gli occhi dello stesso colore della camera, grigi, che lucevano fra le ciglia nerissime. Sentii il calore del suo sussurro prima di capirne le parole.

— No. Ah, sì.

Le posai la mano sulla spalla. Il contatto mi elettrizzava.

Con l’altra mano l’attirai lentamente a me.

— Hai fatto un brutto sogno?

— Un sogno? Sì, un sogno. E tu non hai dormito?

— Forse no, non lo so. Non avevo sonno. Tu, però, dormi ancora un po’. Perché mi guardi così?

Socchiusi gli occhi. Sentivo il battito regolare del suo cuore contro il mio, che batteva un po’ più lentamente. «Accessorio di scena» pensai. Ma non mi meravigliavo più di niente, neanche della mia stessa indifferenza. Ormai mi ero lasciato alle spalle la paura e la disperazione. Ero arrivato lontano, oh, così lontano nessuno era mai andato. Le mie labbra le sfiorarono il collo, scesero giù fino alle piccole cavità fra i tendini, lisce come l’interno di una conchiglia. Anche qui sentivo la pulsazione.

Mi sollevai, appoggiandomi sul gomito. Niente aurora, niente dolcezza dell’alba. Un bagliore di un azzurro elettrico abbracciava l’orizzonte. Il primo raggio scoccò attraverso la camera come un dardo e i suoi riflessi giocarono su tutto.

Nello specchio, sulle maniglie, sui tubi di nichel si infransero i riflessi dell’arcobaleno, sembrava che la luce si precipitasse su ogni superficie liscia per conquistare nuovo spazio, per far saltare in aria la camera. Mi voltai. Le pupille di Harey si erano contratte. L’iride grigia dei suoi occhi si alzò fissandosi sul mio viso.

— E’ già giorno? — chiese con voce spenta. Era fra sonno e veglia.

— Qui è sempre così, cara.

— E noi?

— Noi, che cosa?

— Staremo qui ancora a lungo?

Mi venne quasi da ridere. Ma quando udii la voce turbata che mi uscì dal petto, non aveva nulla di una risata. — Penso che staremo qui a lungo. Ti spiace?

Mi fissava senza muovere ciglio. Batteva le palpebre, in genere? Non ne ero sicuro. Tirò su la coperta e scorsi sul suo braccio il minuscolo, roseo segno dell’iniezione.

— Perché mi guardi?

— Perché sei bella.

Sorrise. Ma solo per cortesia, per ringraziarmi del complimento. — Veramente? E’ che mi guardi, come se tu… come se io…

— Cosa?

— Come se tu cercassi qualcosa.

— Storie!

— No, è come se tu pensassi che ho, o che ti ho, taciuto qualcosa.

— Ma no.

— Se neghi a questo modo, allora è vero. Ma fa’ come vuoi.

Da dietro le lastre avvampanti veniva un’incandescenza azzurro smorto. Facendomi schermo con la mano, cercai gli occhiali. Erano posati sul tavolo. Inginocchiato sul letto, li infilai e vidi la sua immagine riflessa nello specchio. Aspettava qualcosa. Quando mi sdraiai nuovamente al suo fianco, mi sorrise.

— E per me?

Di colpo capii.

— Gli occhiali? — Mi alzai e cominciai a cercare nei cassetti del tavolino sotto la finestra. Ne trovai due paia, erano grandi. Glieli diedi. Li provò, uno dopo l’altro. Le cadevano fino alla metà del naso.

Con un lungo cigolio cominciavano a chiudersi le saracinesche delle finestre. In un secondo, all’interno della stazione, che in quel momento era simile a una tartaruga che si ritira nel suo guscio, dominò la notte. A tentoni le tolsi gli occhiali e assieme ai miei li misi sotto il letto.

— Cosa faremo? — domandò.

— Ciò che si fa di notte. Dormiremo.

— Chris.

— Cosa?

— Ti faccio un nuovo impacco?

— No, non occorre… non ce n’è bisogno, cara.

Nel dirle questa parola, non mi era chiaro se fosse simulazione; ma di colpo, nel buio, abbracciai ciecamente le sue piccole spalle e, sentendole tremare, credetti in lei. Insomma, non so, tutt’ ad un tratto mi sembrò che lei non m’ingannasse, e che invece fossi io a ingannarla, poiché lei in fondo era solo se stessa.

Dormii a tratti, nel dormiveglia mi coglievano dei crampi.

Il martellamento del cuore si placava pian piano. La abbracciavo più stretta, stanco morto, e lei mi toccava la faccia, la fronte, molto delicatamente, per vedere che non avessi la febbre. Era Harey. Non poteva esisterne un’altra più genuina.

Dopo questo pensiero, in me si produsse un cambiamento: smisi di lottare e quasi immediatamente mi addormentai.

Mi svegliò un leggerissimo tocco. Un senso di refrigerio mi cingeva la fronte. Ero sdraiato con la faccia coperta da qualcosa di umido e leggero che si alzò lentamente. Vidi la faccia di Harey chinata su di me. A due mani strizzava la garza su una ciotola di porcellana. Di fianco c’era la crema contro le bruciature. Mi sorrise.

— Che sonno pesante hai — mi disse, mettendomi di nuovo la garza. — Ti fa male?

— No.

Mossi la pelle della fronte, effettivamente le bruciature non mi davano fastidio. Harey era seduta sulla sponda del letto, avvolta in un accappatoio da uomo a strisce bianche e arancione, i suoi capelli neri cadevano sciolti sul colletto. Le maniche erano rimboccate fino al gomito. Avevo una fame terribile, non toccavo cibo da venti ore. Quando Harey terminò le sue cure sul mio viso, mi alzai. Il mio sguardo cadde subito su due vestiti identici; bianchi con i bottoni rossi, posati l’uno accanto all’altro: il primo, quello che io stesso avevo tagliato per aiutarla a toglierselo; il secondo, con il quale era tornata il giorno prima. Questa volta lei stessa aveva tagliato con le forbici la cucitura. Disse che sicuramente la cerniera si era bloccata.

Quei due vestiti erano la cosa più difficile da sopportare fra tutte quelle capitate fino ad allora. Harey stava mettendo in ordine l’armadietto con i medicinali; le volsi furtivamente le spalle e mi morsi a sangue la mano. Senza staccare gli occhi da quei due abiti, o meglio da quell’abito duplice, cominciai a retrocedere verso l’uscita. L’acqua usciva dal rubinetto rumorosamente. Aprii la porta e la chiusi con molta cautela, sgattaiolando silenziosamente nel corridoio. Udivo debolmente il rumore dell’acqua che scorreva e il tintinnio delle bottiglie, e a un tratto ogni rumore cessò.

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