Il razzo, sollevandosi su tre vampe che subito si unirono in una colonna unica, partì attraverso la pista di lancio aperta, lasciando dietro di sé una scia infuocata che ricadeva mollemente. Le saracinesche si chiusero subito, e automaticamente si misero in azione i compressori che cominciarono a pulire l’aria della rimessa dal fumo soffocante che vi regnava.
Non mi rendevo conto di tutto quello che era successo. Appoggiato al quadro dei comandi, con la faccia ustionata dal fuoco vivo, con i capelli bruciacchiati e arricciati dallo sbalzo termico, cercavo, ansando, di respirare l’aria, acre per il fumo e pregna della caratteristica puzza di ozono della ionizzazione.
Nonostante avessi chiuso istintivamente gli occhi al momento del lancio, il bagliore della fiammata li aveva colpiti.
Per un po’ di tempo vidi tutto nero e rosso con dei cerchi gialli, che poco a poco sparirono. La polvere e la nebbia svanirono aspirati dai canali di ventilazione che funzionavano rumorosamente. La prima cosa che riuscii a scorgere fu lo schermo del radar che brillava di un colore verde. Cominciai a cercare il razzo, manovrando con l’indicatore. Quando finalmente lo raggiunsi, era già uscito dall’atmosfera. Non ho mai eseguito il lancio di un missile in modo così pazzo in vita mia, alla cieca, senza curarmi di quale accelerazione dargli e di dove dirigerlo. Pensai che la cosa più semplice fosse introdurlo nell’orbita circolare attorno a Solaris, più o meno all’altezza di mille chilometri, dove avrei avuto la possibilità di spegnere i propulsori, dei quali ignoravo la portata; se avessero continuato a funzionare, si sarebbero potute verificare conseguenze catastrofiche. L’orbita dei mille chilometri — come avevo rilevato dalla tabella — era stabile. Ma anche questo, per dire la verità, non garantiva niente.
Non avevo più il coraggio di accendere il microfono, che avevo disattivato subito dopo il lancio. Ero pronto a tutto pur di non sentire ancora quella orrenda voce, che non aveva più nulla di umano. Una cosa credevo di poter dire: che avevo sconfitto l’apparenza fallace, e che al volto modellato su quello di Harey si sostituiva il suo vero volto; se così non fosse accaduto, l’alternativa della pazzia sarebbe stata veramente una liberazione.
Quando lasciai l’aeroporto, era l’una.
Avevo la pelle ustionata sulle mani e sulla faccia. Mi ricordai che, quando avevo cercato il sonnifero per Harey (ora scoppierei a ridere, se potessi, della mia ingenuità), avevo scorto nell’armadio del pronto soccorso un vasetto di crema per le scottature. Perciò tornai nella mia camera. Aprii la porta e nella luce del tramonto rosso vidi che, nella poltrona davanti alla quale era stata inginocchiata Harey, era seduto qualcuno.
La paura mi paralizzò; fu un panico che mi spingeva a retrocedere, correre, fuggire, ma durò una frazione di secondo.
La persona alzò la testa. Era Snaut. Lo vedevo di spalle con le gambe accavallate (portava ancora quei pantaloni di tela bucati dai reagenti) e guardava certi fogli. Ce n’era tutto un fascio sopra il tavolo. Vedendomi li rimise a posto e per un momento mi guardò, cupo, da sopra gli occhiali, spinti sulla punta del naso.
Senza una parola, andai al lavandino, presi dall’armadietto la crema semiliquida e cominciai a spalmarla sui punti più bruciati della fronte e delle guance. Per fortuna non ero molto tumefatto; gli occhi, per averli chiusi tempestivamente, erano rimasti illesi. Sulle tempie e sulla mascella si erano formate delle vesciche; le bucai con un ago sterilizzato da iniezione e feci uscire il liquido sieroso. Poi applicai due pezzi di garza leggermente inumidita. Per tutto il tempo Snaut continuò a guardarmi. Lo ignorai. Quando finalmente portai a termine questi trattamenti (avevo la faccia che mi bruciava sempre di più), sedetti sull’altra poltrona, dopo avere spostato il vestito di Harey. Era un vestito comunissimo, a parte il fatto che non aveva chiusura.
Snaut, con le mani incrociate sopra le ginocchia aguzze, mi osservava critico.
— Allora, ci facciamo una chiacchierata? — mi disse quando sedetti.
Non risposi, tenendo premuti i pezzi di garza che tendevano a scivolare sulla guancia.
— Abbiamo avuto visite, eh?
— Sì — risposi seccamente. Non avevo nessuna voglia di dargli retta, su quel tono.
— E siamo riusciti a sbarazzarcene? Be’, si può dire che tu vai per le spicce.
Continuava a toccarsi la fronte, che si squamava lasciando apparire le chiazze di pelle rosea dell’epidermide nuova. Lo guardavo sbalordito. Come mai l’abbronzatura di Snaut e Sartorius, fino a quel momento, non mi aveva dato da pensare? Per tutto quel tempo avevo creduto che fosse effetto di un colpo di sole: ma nessuno si abbronza, su Solaris…
— Spero che, per cominciare, avrai proceduto con senno — mi disse, senza pensare che avevo potuto avere un’improvvisa illuminazione. — Narcotico, veleno, lotta libera o che?
— Che cosa vuoi? Possiamo essere schietti. Se hai voglia di fare il buffone, è meglio che tu te ne vada.
— Certe volte si è buffoni senza averne voglia — mi disse.
Alzò gli occhi per scrutarmi. — Non mi dirai che hai usato la corda o il martello? Non avrai buttato il calamaio come Lutero, no? Eh! — fece una smorfia. — Sei un eroe! Non hai staccato il lavandino, non hai tentato di spaccarti la testa contro il muro, niente, non hai demolito la stanza, ma semplicemente e subito, detto e fatto, hai imballato, spedito, e via!
Guardò l’orologio.
— Dovremo avere due o tre ore libere, adesso — concluse.
Mi guardava, con un sorriso antipatico. Riprese: — Su. Mi giudichi un maiale?
— Un porco fatto e finito — sottolineai.
— Sì? Tu mi avresti creduto, se te l’avessi detto? Avresti creduto una sola parola?
Non replicai.
— E’ capitato a Gibarian per primo — continuò, sempre con un ghigno. — Si chiuse nella sua cabina, e parlava soltanto attraverso la porta, e noi, puoi figurarti come l’abbiamo giudicato.
Sapevo, ma preferivo stare in silenzio.
— E’ chiaro. L’abbiamo considerato un pazzo. Ci disse qualcosa attraverso la porta, ma non tutto. Ti puoi immaginare il perché, per quale motivo nascondeva chi c’era da lui? Be’, sai: suum cuique . Ma era un vero studioso. Ci ha chiesto di concedergli una possibilità.
— Quale?
— Sperimentava, suppongo, cercava di classificare la cosa, arrivare a un ordine, risolvere. Lavorava di notte. Sai che cosa faceva? Sì, probabilmente lo sai!
— Quei calcoli — dissi. — Nel cassetto. Nella cabina radio. E’ stato lui?
— Sì, ma allora non sapevo ancora niente di tutto questo.
— Quanto è durato?
— La visita? Circa una settimana… Le discussioni attraverso la porta. Ma che cosa succedeva! Pensavamo che avesse allucinazioni, disturbi del comportamento. Gli ho dato la scopolamina.
— Come… a lui?!
— Eh, sì. La prendeva; ma non per sé. Sperimentava. Così andò avanti.
— E voi…?
— Noi, il terzo giorno, decidemmo di raggiungerlo, anche a costo di buttare giù la porta. Sinceramente, volevamo curarlo.
— Ah! E’ per questo! — mi scappò detto.
— Sì.
— E allora… nell’armadio…
— Sì, ragazzo mio. Sì, non sapeva che intanto alcuni ospiti erano venuti a trovarci. Non abbiamo più potuto occuparci di lui. Non lo sapeva, ma adesso… è una cosa normale, è una routine. — Lo disse talmente a bassa voce che indovinai l’ultima parola più che udirla.
— Aspetta, non capisco — dissi. — Ma come, dovevate sentire. Avevi detto che continuavate a sorvegliarlo. Dovevate sentire due voci, e allora…
— No. Solo la sua voce, anche se c’erano altri rumori incomprensibili. Capirai, pensavamo che fossero tutti suoi…
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