Non avevo bisogno d’immaginare quello che era il sogno di ogni isola galleggiante. — Maledizione, Des — brontolai. — Tu stai parlando di acqua di fondale !
— L’hai detto. A dieci chilometri di profondità, per la più parte.
— Conosco già questa zona — battei un dito sullo schermo. — Quello che non hai fatto apparire nel quadro sono le forti correnti calde a mezza profondità. Tu prova a mandare giù un tubo per l’aspirazione qui dentro e le correnti te lo torceranno come uno spaghetto bagnato!
Lui ghignò soddisfatto. — Giusto — disse, — e sbagliato. Io non sto parlando di tubature flessibili. Sto parlando di tubi d’acciaio, ormeggiati per tutta la lunghezza ad apparati automatici forniti di motori indipendenti che ne mantengano la posizione dinamica. Naturalmente l’alto quoziente termico non si traduce tutto in profitto. Una dannata quantità di energia servirebbe a questo apparato per impedire che le correnti annodino le tubature. E costruirlo costerebbe un bel po’ di quattrini. Ma ho fatto io stesso i progetti e i preventivi: con un quoziente termico di ventisettemila è possibile affrontare l’impresa.
M’era rimasta solo un’altra domanda: — Quando?
— Abbiamo già cominciato, Jason! Sono già partiti i contratti d’acquisto per il materiale e gli equipaggiamenti, e fra due mesi avremo le prime consegne. Mr. d’Agasto ha assunto una quantità di manodopera specializzata, e cominceremo a prenderli a bordo il mese prossimo…
— A bordo? Qui?
Il sorriso di Desmond fu attraversato da un’ombra quando rispose: — Be’, sì. La conversione degli impianti sarà fatta in mare: questo è il progetto di Mr. d’Agasto. A dire il vero penso — aggiuse, con una smorfia, — che avremmo fatto meglio a portare in cantiere le isole una alla volta, magari a Osaka, e fare i lavori nella baia. Gli ho mostrato anche dei preventivi. Sarebbe facile e non troppo costoso… ma il boss è lui, Jason.
Annuii. Era il boss e lo stava dimostrando. Non mi aveva detto una parola… aveva perfino proibito a Desmond di parlarmene finché la cosa non avesse preso inizio. Lui era il capo. E io… io ero una persona ormai superflua.
Vi sono profezie che si avverano da sole; un uomo che pensa d’essere superfluo comincia a diventarlo davvero. La cosa migliore che riuscivo a pensare di me stesso era che stavo procedendo proprio su quella strada, dal vecchio sciocco che ero.
Così sgombrai il campo; me ne andai in Nuova Zelanda.
Avrei potuto altrettanto facilmente scegliere Okinawa o l’Islanda. Sulla Terra non c’era un posto dove qualcuno avesse bisogno di me, o dove io avessi un particolare motivo per andare. Ma pensavo che mi sarebbe piaciuto vedere i geyser prima di morire, cosicché decisi per la Nuova Zelanda. Conoscevo là un paio di persone con cui avevo avuto relazioni abbastanza amichevoli: agenti di navigazione, spedizionieri, e anche un banchiere di nome Sam Abramowitz con cui avevo trattato affari per quarant’anni. Avevo sempre un certo disagio a incontrare Sam perché lo conoscevo già quand’ero un giovanottello nel reparto-dati di una banca, e lui era uno dei pochi a sapere che avevo alterato dei documenti per aiutare il commodoro ai suoi inizi. Allorché sfiorai quell’argomento s’affrettò però a mettermi a mio agio: — Ah, Jason! — borbottò. — Roba di cent’anni fa e di un altro mondo. Là eravamo in America, poi, e tutti e due abbiamo parecchi ricordi che sarà meglio lasciarci alle spalle. — Infatti era stato il banchiere personale di alcuni riciclatori di denaro sporco, finché s’era sentito rivoltare lo stomaco e aveva preferito emigrare. — Dimentichiamo il passato e beviamoci un drink. E domattina ti porterò io a vedere tutti i dannati geyser che vuoi.
Così bighellonai per un mesetto, e poi per altri quindici o venti giorni. I geyser non riuscirono a trattenere il mio interesse tanto a lungo e neppure la Nuova Zelanda, perché una volta visto quel che c’era da vedere era sempre terraferma, per quanto piccola e lontana dalla civiltà. Avevo nostalgia del mare, ma più ancora desideravo che qualcuno mi volesse là sul mare. Così, quando un giorno May mi chiamò per visifono, tenere un tono calmo e casuale mi costò uno sforzo. — Un party? — dissi. — Be’, io non sono un tipo da ricevimenti eleganti, mia cara, lo sai.
— Oh, ti prego, Jason! Verranno anche ie altre May, e con un sacco di loro amici… sarà il più grande party che abbia mai dato.
— Mi piacerebbe vedere le quattro May — ammisi.
— Non tanto quanto a loro piacerebbe rivedere te! Non so neppure se verrebbero, se dicessi loro che tu non ci sarai. E poi, Jason… — c’era una grande dolcezza nella sua voce e nel timido sorriso che mi rivolse. — Io ho tanto sentito la tua mancanza.
Be’, è naturale che andai! Comunque, non ne potevo più delle pecore e dei geyser, e di sentirmi sotto i piedi la terraferma.
May aveva tenuto libere le mie solite stanze, però stavano arrivando moltissimi ospiti, così fui lieto di lasciarle a May Sue Bancroft ed a Tse-Ling Mei, e scesi negli alloggi dell’equipaggio. Neppure lì c’era molto posto. La nuova manodopera era già a bordo per i lavori. Quando vidi le loro facce mi parvero la più triste banda di tipi duri che si potessero prelevare da un penitenziario. Se non avessi saputo che erano specialisti in costruzioni subacquee li avrei presi per picchiatori assoldati dalla Mafia per sedare uno sciopero. Ognuno s’era portato dietro centocinquanta chili di bagaglio personale, ma non credetti neppure un istante che fossero strumenti musicali o libri.
La loro presenza non migliorava ceno il morale sull’isola galleggiante. Dougie aveva tolto seicento persone dai loro appartamenti abituali in modo che i nuovi venuti occupassero una sezione intera da soli. E costoro mangiavano insieme, parlavano insieme e stavano insieme. Il resto della nostra gente era felice di evitarli. Il primo giorno gii agenti della sicurezza ne avevano arrestati due per possesso di droghe pesanti, ma a Dougie questo non importò. Ordinò che le accuse fossero lasciate cadere, e che la sicurezza non mettesse più piede nella sezione occupata dalla nuova manodopera. Non soltanto gli agenti della sicurezza: a tutto l’equipaggio venne detto di tenersi alla larga. E tipi dall’aria minacciosa venuti a bordo con quei lavoratori piantonarono i corridoi per non far passare nessun altro. Tutti i nuovi indossavano uniformi diverse da quelle della nostra gente — rosso scarlatto, con elemetti antiurto — e sembravano più un esercito invasore che qualsiasi altra cosa.
E si comportavano come se lo fossero, anche. Sull’isola galleggiante c’era un’atmosfera pesante che non avevo mai sentito, neppure quando Ben il Bastardo era il nostro padrone: cercai di non farmene influenzare. Vecchio Jason, mi dissi, anche se non avevo superato i sessanta e non ero vecchio per niente. Vecchio mio, tu vedi fantasmi dappertutto e ti preoccupi per niente. Come potrebbero le cose andar peggio di come vanno già? Non potrebbero, mi dissi, per rassicurarmi. Ma a sessant’anni avevo ancora molte cose da imparare.
Andai da May e le dissi che quella gente nuova non mi piaceva. Stava provando alcuni vestiti per il party, con un paio di cameriere che le svolazzavano attorno ammirando sia lei sia gli abiti, e non c’era dubbio che fosse bella come sempre — un po’ più snella, un po’ meno gaia, ma sempre la più bella ragazza del mondo — perciò l’eleganza di quelle vesti le rendeva appena giustizia.
— Non resteranno qui molto, Jason caro — rispose. — Appena avranno istallato le nuove tubature se ne andranno.
— Non vorrei essere quello che li dovrà mandar via dall’isola — borbottai. Per qualche momento lei non mi guardò. Era in piedi davanti alla grande finestra e fissava il mare al di là del giardino, con la stessa espressione malinconica e incantata di quando aveva due anni. Poi disse: — Forse dovresti parlarne a Dougie, non a me. — Aveva ormai piegato se stessa alla decisione di non interferire nel modo in cui l’uomo da lei scelto governava l’impero che lei gli aveva dato. E io dovevo rispettare i suoi desideri.
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