Frederik Pohl - Dolce triste regina delle isole vaganti

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Dolce triste regina delle isole vaganti: краткое содержание, описание и аннотация

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Dopo un lungo periodo d’inattività letteraria, in cui si era limitato alla direzione di collane come «If» e «Galaxy», una decina d’anni fa Fred Pohl riprendeva a scrivere, sbalordendo tutti con opere stupende come
e
, e dimostrando una capacità di rinnovamento incredibile in un autore che aveva alle spalle una carriera tanto lunga e luminosa. Soltanto questo Pohl, il Pohl della seconda giovinezza, avrebbe potuto scrivere un romanzo breve come questo: scritto in uno stile vagamente ispirato al compianto Cordwainer Smith, in un futuro al tempo stesso assurdo e affascinante, dove navi grandi come isole traggono succo e minerali dai mari della Terra e dove si snoda bella e avvincente la vicenda romantica di un uomo che cerca di proteggere se stesso e una dolce fanciulla da un fato iniquo e dalle minacce di un morto.

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Le sfiorai ancora la mano. — No, mia cara, non è così. Dal suo punto di vista aveva ragione a farmi sorvegliare; se ti avessi tradita, la punizione sarebbe stata giusta. — E desiderai essere più sicuro di non aver mai tradito i suoi interessi.

May stava piangendo, adesso. Sarebbe stato compito di suo marito confortarla, ma suo marito stava studiandosi le diciannove lettere, le buste e i francobolli. Io mi alzai, girai intorno al tavolo, poggiai un ginocchio al suolo e le cinsi la vita con un braccio. Per qualche minuto nessuno parlò, e a me non sarebbe importato nulla se quei momenti fossero durati per sempre, con May tenera e doice che si appoggiava a me. Ma alla fine Dougie smise di ruminare quel che stava ruminando, sbatté le lettere sul tavolo e mi fissò a occhi stretti. — Suppongo che tu non stia mentendo spudoratamente, è così? — disse.

May si raddrizzò, rigidamente. — Jason non mi ha mai mentito — affermò. — Mai!

— Non voglio credere che si sia cucinato da solo tutte queste lettere — concesse lui, — così diciamo pure che sia vero. Tu cos’hai da dire Jay? Hai un’idea di chi possa essere questo individuo?

Esitai, ma era ormai tardi per danneggiare in qualche modo quella persona. — Per un po’ ho creduto che fosse il comandante Havrila — dissi. — Tuttavia lui è morto sei mesi fa, e da allora ho ricevuto altre lettere.

— Non hai mai cercato di scoprirlo? Di indagare nei luoghi da cui sono state spedite? Di rintracciare chi le ha impostate?

— Come avrei potuto fare? — O forse avrei dovuto dire perché prendermi la briga di farlo? Da tempo avevo accettato la situazione che il commodoro mi aveva imposto.

Lui annuì. Non si stava mostrando d’accordo, stava sottolineando il fatto che io non avevo né il carattere né l’iniziativa per trarmi d’impaccio da solo. — Ciò che faremo noi — propose, — è di metterti attorno il più dannato apparato di sorveglianza che abbia mai visto in vita tua. Ventiquattr’ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno. E dimentica i cinquanta milioni: io posso arrivare fino a…

— Dougie, smettila! — gemette May. La guardai, sbattendo le palpebre ma lei aveva girato la testa. Poi si volse a me. — Quello che hai detto cambia tutto, naturalmente. Così la questione è chiusa. Andremo avanti come abbiamo sempre fatto finora.

Mi aspettavo un’esplosione da Dougie, invece non batté ciglio. Ancora non avevo capito che da Dougie d’Agasto c’era da aspettarsi una sola cosa: non faceva mai quello che uno si aspettava. Faceva sempre qualcosa di peggio. Annuì, riordinò le lettere, se le mise in tasca e ci elargì un luminoso sorriso.

— In questo caso — esclamò, — che ne dite di una partitina a biliardo?

Se quella sera Dougie d’Agasto non ottenne ciò che voleva dal nostro incontro, per altri versi riuscì ad avere molto. Ad esempio il diritto di darmi istruzioni sul da farsi. Ogni lettera in cui si parlava d’affari portava in calce la firma di May, ma non c’erano dubbi su chi l’avesse compilata.

Le sue istruzioni non erano sciocche o sbagliate, a dire il vero… anche se forse c’erano state lettere che May s’era rifiutata di firmare. Cancellare i piani per un’altra draga da alte profondità… be’, in quel periodo i noduli di manganese saturavano il mercato, con tante isole galleggianti che li raccoglievano. Rinunciare al progetto degli icebergs e vendere le relative attrezzature… certo, dopo i primi successi le nostre entrare s’erano ridotte quasi a zero in quel campo. Non cercò mai di tagliarmi i fondi che destinavo a rendere la Flotta sicura e confortevole per gli equipaggi, ma mise il veto a ogni programma di espansione. Stava ammassando fondi, all’apparenza. Senza dubbio aveva un suo progetto dunque, ed ero certo che presto o tardi l’avrei scoperto.

Nel frattempo eseguivo i suoi ordini, e la vita di bordo non era poi tanto malvagia. Agli ufficiali e all’equipaggio io piacevo, credo. Non solo a quelli dell’ammiraglia. Quando andai in volo a Dubai per firmare il contratto di vendita dei rimorchiatori degli icebergs, e pagai gli equipaggi, loro mi portarono in città e cenammo assieme. Mai mi sarei aspettato questo da quaranta fra uomoni e donne che avevo appena licenziato, e che non potevo far riassumere in altri reparti della Flotta… erano però tutti bravi marinai e il lavoro non mancava. Ciò che fecero fu dunque dire addio a un amico, e ne fui commosso. Ero ancora ubriaco quando risalii in aereo, e atterrando sull’ammiraglia avevo il cervello pieno di stoppa e la vista confusa… ma non abbastanza da non vedere che parcheggiato sulla pista c’era il jet privato di Betsy.

— Ho pensato — disse, venendomi incontro, — che fosse tempo di farti una visita, visto che tu non ti fai mai vedere.

Betsy era una persona che non avrei mai incluso fra i miei amici, ma non desideravo neppure offenderla. — Sei sempre la benvenuta sulla Flotta di May — dichiarai, con molta educazione e molta poca sincerità, e chiamai il maggiordomo e alcune cameriere per farle preparare un appartamento. Mi avevano già preceduto, naturalmente: c’erano fiori freschi nei vasi e bevande ghiacciate nell’ala della villa che sceicchi e ministri occupavano quand’erano nostri ospiti. Con mio sollievo Betsy non s’imbronciò quando dissi che avevo da sbrigare qualche lavoretto. — Sono stato assente un paio di giorni — borbottai, — e bisogna proprio che… — M’interruppe ponendomi un dito sulle labbra con un sorriso che in altre circostante avrei definito una seducente promessa.

— Ne approfitterò per usare la vostra piscina, Jay — disse, anche lei educatamente. E per un’oretta si trastullò nuotando in piscina e lasciandosi scivolare giù per la liscia cascata dal fondo di vetro, mentre io facevo quel che dovevo fare. Il che non era soltanto lavoro: presi alcune pasticche e respirai ossigeno puro da una bombola perché con Betsy come ospite volevo avere la mente sgombra e chiara.

Aveva chiesto che la cena fosse servita in giardino, e quando uscii a raggiungerla vidi che indossava un abito lungo e semitrasparente, bianco, e un fiore d’ibisco nella spilla di diamanti che le teneva sollevati i capelli da un lato. — Come sei elegante — dissi, inchinandomi al copione. Lei ebbe un sorriso sognante, mentre il sommelier serviva il vino.

— A noi due — disse, e quando avemmo bevuto un sorso i suoi occhi scintillarono. — Com’è fresca e profumata l’aria, qui, Jay.

— Speriamo che resti così — fu quel che dissi io, perché mi erano giunte voci sui progetti diversificanti a cui Betsy intendeva dare il via. Lei mi fissò pensosa, ma solo un attimo perché era troppo occupata a recitare la parte romantica che s’era imposta. Per tutta la cena esibì modi svenevoli e chiacchierò, spettegolando sui suoi amici altolocati. Il cuoco aveva avuto il tempo di fare del suo meglio, così la cena fu a base di sughi e salse elaborate, e prodotti freschissimi della piccola fattoria di bordo. Come dessert venne servita frutta affogata in un cocktail così alcolico che rinuciai al mio solito bicchierino di brandy come digestivo. Dopo quei due giorni a Dubai ne avevo abbastanza dell’alcol, inoltre. Betsy non aveva i miei problemi con la digestione: mangiò e bevve tutto quel che le venne servito, e quand’ebbe finito sospirò soddisfatta: — Vorrei avere il tuo cuoco, Jay! Suppongo di poterti dire che ho già cercato di portartelo via.

— Lo so — dissi. E sapevo anche per quale ragione lui si era rifiutato: fin da ragazzina Besty aveva la fama di saper far impazzire il personale di servizio.

— Tu sai molte cose sui miei affari, non è vero? — mormorò, insinuante. — Penso che volessi dire qualcosa, con quell’osservazione sull’inquinamento.

Scossi le spalle. — Ho sentito dire — ammisi cautamente, — che hai contrattato per avere grandi quantità di carbone australiano. La sola cosa che io possa ipotizzare sui tuoi progetti è che intendiate trasformarlo in benzina con la pirolisi. Così finiremo per avere attorno delle raffinerie galleggianti.

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