C’era una falla. Ogni perdita di gas può essere pericolosissima, ma quella non avrebbe dovuto provocare un disastro per due ragioni. La prima è che l’idrogeno si disperde velocemente nell’atmosfera, e comunque abbastanza velocemente da produrre un sibilo che può essere ben avvertito. Infatti sia Jefferson sia gli altri corsero subito alla ringhiera: c’era un tuffo di una ventina di metri da fare per togliersi di mezzo, e al di sotto il mare era calmissimo. La seconda ragione era che non c’era da preoccuparsi perché una scintilla avrebbe dovuto incendiare il gas. Nelle vicinanze delle tubature per il trasbordo dell’idrogeno non era tollerato nulla che potesse produrre accidentalmente una scintilla.
Se l’esplosione fosse avvenuta a pochi metri da Jeff probabilmente non sarebbe stata mortale. Ma quando accadde lui era dentro l’esplosione: si trovava all’interno di una massa mista di aria e di idrogeno, e quel miscuglio gli era penetrato nei polmoni. Il gas scoppiò sia intorno a lui sia dentro di lui. Visse poco più di un’ora. Per tutto il tempo della sua agonia cercò di gridare e di gemere, ma non aveva più polmoni che gli consentissero di farlo.
Il solo danno all’isola galleggiante fu un po’ di vernice scorticata intorno alle flange che avevano ceduto. Tuttavia questo a May bastò: disse che non intendeva più abitare a bordo. Dopo il funerale dichiarò che Jimmy Rex aveva bisogno di una buona scuola, così si sarebbe trasferita con lui in Florida. Io potevo soltanto fare alcune ipotesi su cosa volesse May in realtà: o meglio, non volevo farne nessuna. Ma potei smettere di farmi domande alcuni mesi più tardi, quando lei mi chiamò per visifono e disse: — Ho una meravigliosa novità, zio Jay.
Il suo volto dolce e malinconico, inquadrato nello schermo, aveva un’espressione che mi fermò un attimo il cuore. Chiesi: — Chi è il fortunato?
Lei mi fissò: — Ti prego, non dire nulla su di lui quando ti dirò il suo nome. Me lo prometti?
Avevo la bocca arida e il cuore che andava a sbalzi, ma mi costrinsi a sorridere. — È Dougie d’Agasto, vero? E hai già deciso?
— Sì, ho deciso, Jay caro. È un uomo molto più gentile e simpatico di quel che credi.
— Lo spero.
— Oh, Jay, ti prego! Cerca di vedere le cose dal mio punto di vista. Ho sposato il mio primo marito perché Ben insisteva, e il secondo perché avevo bisogno del suo aiuto. Questa volta è perché lo voglio io, Jay. Sii buono, dimmi che è una cosa giusta!
— May — mormorai all’amore della mia vita, — qualunque cosa tu faccia va sempre bene per me. — Due volte vedova alla sua età… come potevo biasimarla?
No, era più giusto biasimare me stesso. E la previsione di Ben il Bastardo si realizzava. Aveva detto che lei avrebbe sposato un uomo ricco, istruito e bello. Non aveva mai detto che questi tre sarebbero stati un uomo solo.
Sposò per dovere e per far sodalizio
il primo consorte, vissuto nell’ozio.
E sposò per amicizia e per aver man forte
il secondo, che il troppo impegno portò a morte.
Ma quando volle sposarsi per amore
l’uomo che scelse dei tre fu il peggiore.
Ingenua e cieca era agli animi intriganti
la malinconica regina dell’isole vaganti.
Misero su casa a Miami. Miami! Non riuscivo a immaginare come la mia May potesse credersi felice fra la gente della terraferma, specialmente gente di quel genere, e tuttavia le sue lettere rivelavano una certa serenità. Erano brevi, devo dire, e non molto frequenti. Ma le poche notizie che contenevano erano buone. Dougie, a quanto volle scrivermi, aveva messo la testa a partito e studiava ingegneria idroelettrica! Era un peccato che questo lo tenesse a lungo lontano da casa, ma la materia a cui s’appassionava richiedeva impegno. Lei invece giocava a golf, nuotava, andava a cavallo… aveva sempre qualcosa da fare. E Jimmy Rex diceva d’essere contento della sua scuola. Dalle lettere non si capiva se la scuola fosse contenta di lui. Così un aspetto positivo riuscivo a vederlo: se non avevo May, almeno non avevo neppure Jimmy Rex.
La residenza del proprietario era rimasta a me, e avevo tutto il tempo che volevo per aggirarmi da solo in quel lusso. Non ero dell’umore di dare dei cocktail party, e se a Betsy venne mai l’idea di farsi invitare ebbe il buon senso di non parlarmene. Mi tenevo occupato. In quel periodo lavoravamo in una dozzina di campi diversi. Vendevamo gas liquidi: ossigeno, azoto, idrogeno, anidride carbonica solida, ammoniaca, metanolo, clorina e soda caustica; inoltre piccole quantità di argon e di elio, quando trovavamo compratori. Mi trastullavo con l’idea di mettere in orbita geostazionaria molto bassa un satellite con cui trasmettere energia in Australia o in Giappone. L’industria dell’acciaio di Betsy invece andava male. Intanto, prendendo spunto da quel che mi aveva fatto notare il comandante Havrila sulle navi che arrivavano in zavorra, le sfruttavo per far arrivare sabbia con cui ripulivamo le tubature dalle incrostazioni anche in alto mare. Naturalmente non ero io il proprietario della Flotta, e per ogni cosa chiedevo il permesso a May. Lei me lo dava invariabilmente. Dato che quell’attività mi gratificava avrei dovuto essere felice… o felice per quanto ci si potrebbe aspettare, sapendo che la mia May era sposata con un verme travestito da uomo. Alla mia infelicità contribuiva però la lettera che mi era arrivata più o meno quando mi aspettavo. Non c’era il nome del mittente né il suo indirizzo. Solo tre righe:
Gli ordini del commodoro sono ancora in corso. Non ero certo se fosse il caso di eseguirli o meno, così ho tirato la moneta. Stavolta hai vinto tu.
Quasi avrei desiderato che la moneta fosse caduta al contrario… o meglio, mi sarebbe piaciuto se il mio misterioso corrispondente fosse venuto a parlarmi della faccenda. E se poi avesse deciso di assassinarmi… be’, certo non gli avrei dato una mano, ma c’erano notti in cui anche andarmene a quel modo mi sembrava meglio che vivere lì da solo. E Dio sapeva se avevo bisogno di qualche buon consiglio… perfino dal mio potenziale assassino.
Infine May mi spedì una lettera in cui diceva: Ti prego, vieni a casa nostra per qualche giorno. E in fondo c’erano alcune righe scritte da Dougie d’Agasto:
Abbiamo qualche affare importante di cui parlare, Jason. Potresti venirne fuori molto ricco; inoltre, questo è ciò che May desidera.
Perfino quando quell’individuo cercava d’essere gentile riusciva a farmi rizzare il pelo. Non avevo dimenticato l’ultimo affare che mi aveva proposto. E conoscendolo pensai, per un attimo, che avrebbe potuto rifarmi la stessa offerta… ma era un’idea paranoica, ovviamente. Nessuno rapisce un bambino quando ha già catturato la madre.
Se c’era una cosa certa era che io non avevo intenzione di parlare di niente con Dougie d’Agasto, non importa quali panorami di ricchezza mi avesse steso dinanzi. Ma a chiedermi di far loro visita era May.
Non è un volo lungo quello da Papeete a Miami, ma sono pur sempre cinque fusi orari e mi portò via la nottata. Così arrivai alle dieci del mattino ora locale, con appena un’ora di sonno dietro le spalle e di umore poco felice. All’aeroporto presi un tassì e mi feci portare all’indirizzo che Dougie mi aveva dato. Il quartiere in cui mi trovai sembrava la zona dei magazzini e puzzava come se ci fosse un inceneritore di rifiuti. Un paio di vecchie auto a benzina, mezzo bruciate, arrugginivano lungo il marciapiede. Eravamo solo a due o tre isolati dalla Biscayne Bay… che aggiungeva il suo odore all’atmosfera. Uno degli edifici della zona era stato semidistrutto da un incendio, e un altro aveva porte e finestre sbarrate da assi. Di fronte a un negozio di alimentari una vecchia negra rovesciò un secchio d’acqua saponata sul marciapiede e cominciò a ramazzare con una scopa. Attraversai la strada verso di lei, con la valigetta in mano. — Mi scusi, può dirmi dove abita Douglas d’Agasto? — chiesi.
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