Frederik Pohl - Dolce triste regina delle isole vaganti

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Dolce triste regina delle isole vaganti: краткое содержание, описание и аннотация

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Dopo un lungo periodo d’inattività letteraria, in cui si era limitato alla direzione di collane come «If» e «Galaxy», una decina d’anni fa Fred Pohl riprendeva a scrivere, sbalordendo tutti con opere stupende come
e
, e dimostrando una capacità di rinnovamento incredibile in un autore che aveva alle spalle una carriera tanto lunga e luminosa. Soltanto questo Pohl, il Pohl della seconda giovinezza, avrebbe potuto scrivere un romanzo breve come questo: scritto in uno stile vagamente ispirato al compianto Cordwainer Smith, in un futuro al tempo stesso assurdo e affascinante, dove navi grandi come isole traggono succo e minerali dai mari della Terra e dove si snoda bella e avvincente la vicenda romantica di un uomo che cerca di proteggere se stesso e una dolce fanciulla da un fato iniquo e dalle minacce di un morto.

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Si raddrizzò stancamente. — Dietro di lei — rispose. Ebbi l’impressione che ci fosse una luce ostile nel suo sguardo, comunque aggiunse: — Vuole che l’aiuti a portare la valigia?

— Grazie, no. Ma è un’offerta gentile da parte sua. — Sorrisi e accennai al marciapiede. — Non mi aspettavo che qualcuno sapesse ancora cos’è la pulizia da queste parti.

— Io non sono di queste parti — m’informò lei, e ci salutammo cortesemente. Se non altro, pensai, in quel quartiere sopravviveva una persona gentile per fare il paio con May… ma come poteva d’Agasto aver portato May a vivere in quel sobborgo? Be’, naturalmente poteva se la zona si adattava ai suoi scopi, anch’essi poco puliti.

E naturalmente ero partito da una premessa sbagliata. Nell’edificio che mi era stato indicato non abitava nessuno. Era adibito a uffici, e una volta che fui nel cortile interno vidi che era anche abbastanza lussuoso. Da dietro un’inferriata coperta d’edera sbucò un giovanotto smilzo, di colore, che aggirò una fontana di marmo e mi chiese cosa desiderassi. Dopo che gli ebbi dato il mio nome mi fece passare attraverso una porta — notai il montante spesso e largo, e compresi che conteneva un apparato rivelatore d’armi — quindi in una bella sala d’attesa. Qui una ragazza svelta e attraente dai capelli rosa mi prese in consegna, guidandomi nell’ufficio di Douglas d’Agasto.

Avevo già visto una foto di quel salone: era l’ufficio di Mussolini, al Quirinale. — Ehilà, zio Jason! — esclamò d’Agasto alzandosi per darmi il benvenuto con una stretta di mano, cosa che avvenne solo quand’ebbi superato i quindici metri che mi separavano dalla sua scrivania. — Lieto che tu sia potuto venire. Scusa se ti ho dato l’indirizzo dell’ufficio, ma ho pensato che avresti preferito prima parlare d’affari e poi andare a casa a rilassarti un po’.

Lasciai che agitasse la mia mano: — E quali sarebbero gli affari di cui dobbiamo parlare?

Lui annuì, approvando che venissi subito al punto. Non fu da meno: — May vuole la proprietà completa della Flotta. Niente più fiduciari, niente altri proprietari. Così vorremmo che tu rinunciassi al tuo incarico di amministratore e ci vendessi la tua parte di azioni. Siamo disposti a pagartele cinquanta milioni di dollari, zio Jason.

Non mi aveva invitato a sedere ma presi lo stesso una sedia. — Io non sono tuo zio — precisai, — e le mie azioni non valgono tanto. Quindici o venti milioni, al più. Ma poco importa perché non le vendo.

— May ci terrebbe molto che tu…

— Se May vuole che io faccia una cosa me lo dice lei stessa.

Nell’espressione che gli si congelò sul volto ci fu un attimo di rabbia omicida. Non me ne feci un baffo. Ma subito il suo volto abbronzato tornò a irradiare una presuntuosa sicurezza di sé. — In tal caso — disse, esibendo un gran sorriso, — non ci resta che andare a casa, e provvedere lei a chiederti questa cosuccia. Credo che il nostro posticino ti piacerà.

Se Dougie intendeva dire che l’avrei trovato lussuoso, sapevo che non esagerava. Avevo firmato io i trasferimenti di fondi, sul conto di May, che erano serviti per quella spesa. E il lusso cominciò a farsi vedere assai prima che arrivassimo là. Distavamo solo tre isolati dal molo privato di Dougie, sulla baia, ma uscendo in cortile trovammo una limousine con autista ad attenderci. Mentre giravamo fuori, sulla strada, vidi che la vecchia negra smetteva di lavare la vetrina del negozio e si voltava a gettarci un’occhiata. Apprezzai quello sguardo: ora sapevo a chi dedicava la sua ostilità. Ci trasferimmo in un motoscafo con tre uomini di equipaggio e rombammo via nel canale, passammo sotto alcuni ponti, aggirammo diverse piccole isole e facemmo rotta verso una abbastanza estesa. La costeggiammo per qualche minuto. Lungo la riva sorgevano ville eleganti, poi per un pezzo ci furono solo mangrovie e cipressi, finché raggiungemmo un molo a cui avrebbe potuto attraccare un transatlantico. Be’, non proprio, ora esagero. Ma anche quella banchina era un’esagerazione. Neppure Dougie poteva desiderare un vascello per cui occorresse tutto quello spazio.

La villa era delle dimensioni che mi aspettavo, ma la cosa più bella di quello spettacolo era May che correva giù per il vastissimo prato verde smeraldo per venirmi incontro. Mi baciò sulle guance, abbracciandomi più forte di quanto avesse mai fatto, poi fece un passo indietro per esaminarmi. Anch’io la esaminai, emozionato. Era la mia dolcissima e tenera May, bella come sempre, con i suoi grandi occhi luminosi, i capelli di seta, il volto… — Mi sembri stanca — dissi, senza stare a riflettere, ma era vero. Per farmi perdonare aggiunsi: — Troppo golf, suppongo.

Il suo sorriso vacillò, poi riprese a splendere. — Troppo tempo che non ti vedo, piuttosto, Jason. Su, lascia che ti prenda a braccetto. Oh, Jason… ho sentito tanto la tua mancanza!

Se sarò consultato dal tribunale celeste quando verrà il giorno di decidere per quanto tempo Dougie d’Agasto dovrà arrostire all’inferno, potrò dire a suo discarico che almeno ci lasciò soli a parlare. Si scusò con noi, andò nel suo studio per un’oretta, scese a pranzo e subito dopo andò via in motoscafo restando assente fino a sera. Disse che era per i suoi studi d’ingegneria idroelettrica: così ebbi May tutta per me. Mi fece vedere la villa e mi raccontò di quel che faceva Jimmy Rex. Poi mi parlò della plebaglia secessionista, che spesso impazzava per le strade, e disse che non poteva dar loro torto e che forse quella parte della Florida si sarebbe unita a Cuba. Volle sapere se avessi visto le nuove grandi isole galleggianti che la Cina stava varando, e se in mare ci fosse molto pesce morto. Ebbi anche il tempo di fare un pisolino prima di cena, ma né lei né io sfiorammo l’argomento principale.

La cena non fu sontuosa, però May aveva fatto cucinare diverse fra le mie pietanze preferite. Fin da bambina sapeva bene quali fossero. Quando il caffè fu in tavola, Dougie fece segno ai camerieri di uscire dalla sala e si appoggiò allo schienale dell’elegante sedia.

— Tesoro, è il momento di parlargliene — disse, con quel sorriso che sembrava sempre sul punto di trasformarsi in una smorfia acida.

May sembrò riluttante, ma non si oppose. Mise i gomiti sulla tavola, poggiò il mento sulle mani e mi guardò. — Tu sei stato come un secondo padre per me, Jason, e un buon amico.

Non erano proprio le parole che avevo sperato di udire da lei, ma date le circostanze erano le migliori che potessi aspettarmi. Mi sporsi ad accarezzarle una mano.

— Così non credere che io non ti sia grata, caro, perché lo sono. E lo sarò sempre. Ma non sono più una bambina: sono una donna adulta, sposata… — Sposata tre volte, pensai io, e lei dovette avere la stessa riflessione perché esitò. — Sposata, e con un figlio. E posso prendermi le mie responsabilità come ogni persona adulta. Così vorrei chiederti di rinunciare al tuo incarico di amministratore fiduciario. — Dougie annuì con serietà, quasi che ascoltasse quell’idea per la prima volta e si degnasse di riconoscerne la saggezza. Non disse nulla. E fece bene, perché avrei potuto rispondergli con un vocabolario assai poco elegante. — Non devi vendere le tue azioni se preferisci tenerle, Jay — continuò lei. — Dougie pensava che ti converrebbe, ma sta a te. Però ti prego di pensarci.

Non mi volsi a guardare Dougie. Non ne avevo bisogno perché avvertivo la temperatura del suo sorriso… e la sentii scendere sottozero quando dissi: — Se facessi quel che chiedi, May, sarei ucciso. E per ordine di tuo padre. — Tolsi di tasca le diciannove lettere che avevo ricevuto dal mio ignoto sicario e gliele porsi. Poi riferii loro parola per parola la promessa che il commodoro mi aveva fatto.

Dougie abbatté un pugno sul tavolo, e malgrado lo spessore il legno tremò. Non fece commenti, e io non lo guardai, ma con le lacrime nella voce May gemette: — Vuoi dire che mio padre ha pagato qualcuno per ucciderti ? Ma questo è terribile!

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