Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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Il tono di Ferd era rimasto cordiale e scherzoso, consentendo a Kevin di continuare, senza irritarsi: «È inutile che ti spieghi tutto adesso. D’altra parte non potrei nemmeno farlo. Ti dico soltanto che, secondo qualche mio calcolo, la sopravvivenza dell’umanità potrebbe essere in serio pericolo. L’unico modo che abbiamo per garantire l’esistenza dei nostri figli è che io possa tornare nello spazio per predisporre una difesa adeguata».

Qualsiasi discorso sui figli faceva sempre colpo su Ferd, che ne aveva cinque, senza contare l’ascendente che Kevin Dimarzio aveva sempre avuto su di lui. Annuì pensosamente.

«Non puoi dirmi di più, eh? Be’, che militare sarei se non sapessi rispettare la consegna del silenzio? D’accordo. Domani mattina stessa comincerai il training con gli altri astronauti. A parte qualche non indifferente problemino di ruggine fisica, che nel caso ti prego — anzi, ti ordino — di riferire immediatamente, non credo che farai moltissima fatica. Non sono cambiate molte cose dal Columbia che hai pilotato diverse volte all’ Atlantis su cui si passeggia oggi per lo spazio. Saranno sufficienti alcune ore di simulatore di volo e un bel bagaglio di aggiornamenti tecnici. Sempre ammesso che il tuo vecchio cuore regga allo sforzo fisico…»

E il simpatico ufficiale gli tese la mano, strizzando l’occhio.

«Reggerà, reggerà, non preoccuparti, vecchio mio», ribatté Kevin.

Isola del Cavallo. Sud della Corsica.

Anno 844 dalla Fondazione di Roma.

[91 d.C. (N.D.T.)]

Verso nord si ergevano maestose le bianche scogliere della terra dei còrsi. L’isola era costantemente spazzata da un vento teso che portava con sé i profumi della terraferma e della libertà.

L’epidemia colpì improvvisamente gli animali quando Marzio, il primogenito di Giunio, aveva appena compiuto due anni. Fino a quel momento la vita della comunità si era svolta nel modo più pacifico e nella più grande armonia. Pur non avendone abbracciato la religione, a differenza di Clelia, Giunio rispettava le usanze dei cristiani. Era un uomo forgiato dalle battaglie. Per qualche tempo si era quasi sentito scelto dagli dei per una missione. Ma erano tempi ormai lontani. E quali dei, comunque? In ogni caso, il rispetto delle abitudini altrui apparteneva all’educazione che gli era stata impartita da bambino e che aveva affinato sotto la guida del suo generale.

«Gli animali sono decimati da un male incurabile, Giunio», fu il responso di Luca, un fervente cristiano che, prima delle persecuzioni, era famoso nelle campagne attorno a Roma come uno dei migliori veterinari dell’impero.

«Ci sono pericoli per la gente?» chiese Giunio, preoccupato al pensiero delle ormai oltre settanta persone che popolavano l’isola.

«No, non sembra contagioso per gli uomini», fu la risposta.

Secondo Giunio, l’unico motivo per cui avevano potuto vivere in tranquillità fino allora era la totale autonomia dell’isola. Ogni bene necessario al loro sostentamento veniva prodotto localmente, senza bisogno di alcun contatto con il mondo esterno. Certo, addomesticare gli animali che prima del loro arrivo vivevano allo stato brado non era stato facile, ma alla fine aveva dato i suoi frutti. Adesso, però, di fronte alla moria del bestiame, si trovavano a dover affrontare un improvviso quanto imprevedibile stato di incertezza: se avessero cominciato a intrattenere relazioni commerciali con gli abitanti delle grandi isole vicine, in breve tempo anche Roma avrebbe inevitabilmente scoperto la loro esistenza.

Clelia lo raggiunse mentre passeggiava accigliato sulla spiaggia di sabbia bianca. Si mise al suo fianco in silenzio, rispettando la sua concentrazione.

«Non possiamo arrenderci adesso», rifletté Giunio ad alta voce. «Non possiamo… Ma sta di fatto che, se ci troveremo senza cibo e senza latte per i nostri figli, dovremo per forza abbandonare l’isola. A meno che non intraprendiamo qualche commercio. Ma che cosa può offrirci questa terra, così aspra, più del poco che ci basta per vivere? Tanto più se si pensa che da domani potrebbe non garantire nemmeno il nostro sostentamento.»

Vide trotterellare il piccolo Marzio sulla battigia, per fermarsi con aria incantata davanti a un masso di granito dalle stranissime forme scolpite dal mare e dal vento.

Di punto in bianco gli tornarono alla mente le cave dei marmi di Luna, le pietre pazientemente tagliate dagli uomini, i grossi blocchi caricati sulle navi alla fonda e la prosperità della sua città natale grazie a quell’unico commercio.

Preso in braccio il bambino, con la mano libera accarezzò la roccia rossa e levigata, meditabondo. Ma a poco a poco il volto gli si aprì in un largo sorriso. Certo! Il colore della pietra gli aveva fatto affacciare alla mente la prospettiva di un destino più roseo per tutta la comunità isolana.

Gerusalemme. Sede della Knesset. Dicembre 1995.

Il primo ministro israeliano sollevò la cornetta del telefono interno: «Per un’ora non voglio essere disturbato per nessunissimo motivo», ordinò alla segretaria personale. Quindi congiunse le punte delle dita e si mise più comodo nella poltrona.

«Sono tutto per lei, maggiore Breil», disse, fissando Oswald negli occhi.

L’omino non tradì la minima emozione, mettendo immediatamente in moto il suo meticoloso ordine mentale per riferire al capo di stato le scoperte fatte.

«Procederò per sommi capi», cominciò tranquillo il suo minuscolo interlocutore, «scendendo nei particolari a mano a mano che andremo avanti. Se qualcosa non dovesse esserle chiaro, la prego di interrompermi, signor primo ministro.

«Credo lei sappia che per qualche tempo, con la qualifica di direttore di una piattaforma petrolifera, mi sono occupato di ricerche sottomarine. In realtà avevo cercato quell’incarico per portare avanti una mia vecchia idea: l’individuazione e l’eventuale recupero dell’ U115 , l’ultimo sommergibile nazista partito dalla Germania, che secondo me — e anche secondo altri, come vedremo — custodiva i segreti personali del Führer.

«Purtroppo però, come sappiamo, il sommergibile si è spezzato a pochi metri dalla superficie, consentendo il recupero di una minima parte del suo carico.

«Dietro a questo e ad altri incidenti, che hanno provocato molte vittime e messo a repentaglio la mia e altre vite, si è scoperto che c’era sempre Sir Robert Rustom, il presidente della North Pole Oil, la compagnia petrolifera presso cui avevo cercato lavoro in base a una serie di ragionamenti e sospetti. E anche questo ci è noto.»

Così detto, Oswald si concesse una breve pausa, quasi volesse verificare se l’interlocutore lo seguiva con la giusta attenzione. Quindi riprese: «Non potendo sopportare l’onta del carcere per il suo tradimento, Rustom si è suicidato. Sempre che non sia stato suicidato… Non so… Comunque, la sua famiglia si era ammantata di una fama di eroismo nella recente storia del Regno Unito, nel cui corso suo padre era consigliere militare di Winston Churchill.

«Ma veniamo al dunque. Gli oggetti trovati nella parte recuperata dell’ U115 , purtroppo, sono di scarso interesse per documentare l’idea personale a cui ho accennato».

«E quale sarebbe, Oswald?» lo interruppe il primo ministro.

«Non ho mai creduto che Hitler sia morto suicida nel bunker di Berlino, né che il corpo rinvenuto dai russi e poi inspiegabilmente scomparso fosse quello del Führer. Ma se mi permette, signore, proseguirei per gradi.

«A quel punto, pur nella scarsità d’informazioni documentali, ero arrivato a scoprire che il passato dei Rustom è pieno di lati interessanti, per non dire inquietanti, certamente oscuri, centrati sulla creazione di un’associazione segreta, il cui comando e ogni altra carica vengono tramandati di padre in figlio. Come il diritto a un trono. In secondo luogo, la ricchezza della famiglia appariva sospetta: c’era un salto di qualità troppo forte tra il normale benessere di un ammiraglio e la possibilità di acquistare la più potente compagnia petrolifera britannica del dopoguerra, come ha fatto suo figlio.

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