Vedendo l’espressione torva della sacerdotessa che riemergeva dal labirinto sotterraneo, si sentì prendere da un fremito di terrore.
Giunio lasciò il lebbrosario con Clelia e Valeriano sette notti dopo la sepoltura del padre. I cristiani furono di molto aiuto, guidandoli per un lungo e tortuoso cunicolo che forse lui non sarebbe mai riuscito a percorrere, pur avendo dovuto forzatamente imparare e perfezionare più volte le arti dell’evasione.
Quando trovò la forza di voltarsi a guardare l’imbocco segreto della grotta, erano ormai lontani. Non lo vide più. E forse non sarebbe mai più riuscito a individuarlo. La sola idea che gli eventi potessero costringerlo a cercarlo ancora una volta gli diede un brivido.
«Nel Fretum Taphros, il tempestoso braccio d’acqua che separa la Sardegna dalla terra dei còrsi», gli spiegò Valeriano mentre camminavano insieme, «ci sono alcune isole battute dal mare e dal vento, e trascurate dagli uomini. Ho avuto occasione di visitarle da giovane, e più di recente me ne hanno dato notizia alcuni marinai conquistati alla nostra fede. Sono ancora come un tempo, disabitate ma ricche di animali selvatici e di vegetazione.
«È il luogo ideale per creare una colonia dove i cristiani possano finalmente vivere al riparo dalle persecuzioni. Per questo siamo partiti oggi. Prima dell’alba, una nave governata da nostri fratelli salperà da una insenatura rocciosa quasi inaccessibile, a sud di Roma, e ci condurrà laggiù, assieme a una cinquantina tra uomini e donne che desiderano soltanto vivere in pace e fratellanza.»
«No», ribatté Giunio con fermezza. «Non posso partire così. Non potrò mai avere pace finché non avrò compiuto la mia vendetta. La reclamano troppi morti innocenti.»
«Ragiona, Giunio», replicò Valeriano con altrettanta fermezza, ma nel suo solito tono pacato. «Vendetta è una parola che non voglio sentir pronunciare. La punizione spetta unicamente a Dio. Quello che conta è che tu possa ottenere la riabilitazione dalle gravi accuse e magari recuperare, un giorno, le Pietre che sono il simbolo della tua famiglia. Ma potrai farlo soltanto da uomo libero, non vivendo alla macchia, braccato dai sicari di Menenio.
«Ti scongiuro, vieni con noi nelle isole. Abbiamo bisogno di te e dell’esperienza di cui ti sei arricchito facendo rifiorire i campi di Marzio e dirigendo i suoi commerci. Non sprecare tanta ricchezza, mettila al nostro servizio. La mia gente ha un bisogno disperato della tua guida e Clelia ha bisogno di averti vicino.»
La strada era ancora lunga. Giunio la percorse in silenzio, immerso in profondi pensieri.
«Va bene», esclamò improvvisamente. «Rimarrò con voi fino a quando ce ne sarà bisogno. Ma quegli uomini infami non possono rimanere senza punizione. E un giorno l’avranno.»
Trovarono i cristiani radunati sull’angusta spiaggia sassosa, da dove una barca faceva la spola per caricare provviste e uomini sulla nave. Salparono nel cuore della notte, frementi dello spirito di avventura che fa battere il cuore di ogni pioniere.
Florida. Dicembre 1995.
Gregory Bender si era lasciato sprofondare nel divanetto del jet. Con il fare più naturale di questo mondo, l’anziano Premio Nobel si era tolto le scarpe, aveva allungato le gambe e dato di piglio al comando del televisore, inserito nel mobiletto bar. Già aveva chiesto ai due compagni di viaggio di chiamarlo Greg come facevano tutti gli amici. Laura lo osservava divertita: era stupefacente che una personalità di livello mondiale sapesse comportarsi in maniera così informale alla rispettabile età di sessantanove anni. Una volta a suo agio, il presidente della commissione spaziale dell’ONU sembrò ricordarsi finalmente della sua presenza.
«Il nostro amico ha fatto bene a cantargliele a quel… a quel brutto muso giallo», disse di punto in bianco.
«Non sono affatto convinto delle conclusioni a cui sono giunti quei sapientoni. Ho studiato a fondo le teorie di Leonard Speitz. Non fosse che per il rispetto dovutogli per la sua statura di grande scienziato, penso che seguire e studiare nei minimi dettagli un oggetto spaziale da lui scoperto, e che porta il suo nome, rappresenti un autentico dovere. Oltre che, non si sa mai, una giusta precauzione.»
E, imprevedibile come sempre, assunse un buffo tono di complicità, piegandosi di lato, accostandosi all’orecchio di Laura e dicendole sottovoce: «Qui lo dico e qui lo nego, ma le rivelerò che le mie conclusioni personali collimano quasi perfettamente con quelle del colonnello Dimarzio. Se non riusciamo a deviarne la rotta, ci sono molte probabilità che l’asteroide Speitz-42 finisca con il caderci sulla testa, provocando un disastro tale non soltanto da cancellare la maggior parte delle specie viventi ma da innescare anche una serie di ripercussioni del tutto imprevedibili sul moto degli astri».
«E perché non lo ha fatto presente alle mummie della commissione?» non riuscì a trattenersi Laura.
«Sa, le strane leggi di fair play che governano il nostro simposio vogliono che il presidente non abbia diritto di voto. Io sono una figura puramente simbolica. Di prestigio? Non so. Certo, è una sorta di riconoscimento per il Nobel che ho ricevuto. Ma si tratta di roba ormai vecchia. Diciamo un fiore all’occhiello. E non sa quante animosità può creare l’assegnazione persino di una medaglietta. Si figuri il Nobel.
«Crede che un settantenne un po’ suonato, che fa una fatica terribile a usare una calcolatrice elettronica, per non parlare di un computer, possa essere preso in considerazione da questi eminenti studiosi impegnati nella conquista dello spazio, ciascuno nella fetta più grossa possibile per il suo paese?»
Ultimate le operazioni di decollo, Kevin aveva lasciato il secondo nella cabina di pilotaggio e li aveva raggiunti proprio durante l’agrodolce sfogo dello scienziato.
«Non preoccupatevi comunque», continuò Bender indicandosi la fronte. «Questa testa sarà anche un po’ scoppiata, ma continua a funzionare benissimo e contiene un grosso bagaglio di informazioni riservate, che ci saranno di immensa utilità per il nostro lavoro.»
Atterrarono sulla pista 7 del Kennedy Space Center, in Florida, circa due ore più tardi. Appena arrivati in sede, Kevin chiese e ottenne un appuntamento immediato con il generale Steps, responsabile della gestione equipaggi per le missioni spaziali.
Ferdinand Steps era il classico militare da ufficio. Ma forse proprio per questa sua abilità nel passare le carte e fare lo slalom nei meandri della burocrazia aveva raggiunto il grado di generale prima di Kevin, sebbene fossero compagni di corso. Di colore, aveva combattuto contro le preclusioni di natura razziale fino dai tempi dell’accademia, avendo come quasi unico alleato il giovane collega Kevin Dimarzio.
«A che cosa devo la visita dell’eroe dei due mondi?» chiese con aria allegra, indicando a Kevin un divanetto e aprendogli sotto il naso una scatola di fragranti sigari cubani.
«Voglio tornare a volare, Ferd», tagliò corto Dimarzio.
«Non ti sembra di essere un po’ stagionato per infilarti nella cabina di un F16 in missione nei cieli di Bosnia?» ridacchiò il generale, avvolto in una nuvola di fumo.
«Vorrei essere subito inserito nella rosa degli equipaggi dell’STS 74», replicò Kevin, andando dritto al cuore del problema e spegnendo immediatamente la risata del suo interlocutore.
«Sei sempre stato un guascone, Kevin Dimarzio, fin da quando mi lasciavi le soluzioni dei test scritti nel cesso della scuola di volo, perché le copiassi. Ma non temi di avere qualche problema? Non offenderti, ma, voglio dire… sei sulla soglia dei quarantacinque, se non li hai passati. Il climaterio… L’appannarsi dei riflessi… Che cosa ti succede? Nostalgia della gioventù rosata? Hai provato a sentire un analista?»
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