Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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Quel pianto ininterrotto avrebbe senza dubbio richiamato l’attenzione di qualcuno sull’imbarcazione ormeggiata, nel buio della notte veneziana, presso il monastero.

Senza esitare ancora, il giovane decise di andare in aiuto del suo padrone servendosi della corda con la quale Lorenzo e Floriano avevano superato il muro di cinta.

All’interno delle mura del convento, i rumori del duello guidarono il luogotenente del Muqatil verso il suo comandante.

Il samurai portò le mani al petto, entrambe saldamente serrate attorno all’impugnatura della katana. Prese a muoversi con i leggeri passi di una danza mortale, spostando la guardia da una parte all’altra del torace, senza mai distogliere lo sguardo dall’avversario.

Hito Humarawa dimostrò l’agilità di un gatto, e portò un primo, micidiale affondo.

Lorenzo scartò di lato: la lama della katana lo sfiorò al fianco destro. Il movimento repentino sbilanciò leggermente il Muqatil. La sua mano sinistra, nel tentativo di controbilanciare il corpo, scattò verso l’alto. La lama del samurai balenò nell’aria. Le prime falangi del medio e dell’anulare del guerriero saraceno si staccarono di netto e le dita recise caddero sul pavimento in legno del convento.

Floriano intanto fronteggiava il gigantesco cinese con la spada nel pugno. Capì subito che l’avversario non era un abile spadaccino, ma che poteva contare soltanto sulla sua enorme mole e sulla sua forza.

Wu aveva un’aria omicida dipinta in viso. La bocca deforme era atteggiata in un terribile sorriso.

Floriano scattò in avanti, la spada puntata contro il ventre dell’avversario. Wu parò il colpo, ma non il calcio affibbiatogli dal piacentino nell’addome.

Il piede di Floriano quasi si immerse nel grasso della pancia del cinese. Wu sorrise e caricò ancora. Floriano si scansò quel tanto che bastava per vanificare l’assalto, compì una piroetta e affibbiò un fendente sul braccio destro del gigante. La lama della spada penetrò sino all’osso. Wu rimase incredulo a guardare la ferita che in un primo momento sembrava una profonda traccia dai contorni candidi. Quindi il sangue sgorgò con forza dalle vene e dai capillari recisi.

Wu sembrò disorientato, poi la sua mano si strinse attorno alla lama dell’avversario. Incurante del dolore, il cinese strappò la spada che Floriano impugnava. Come un rinoceronte ferito, caricò a testa bassa. Floriano ebbe la freddezza di sollevare una pesante sedia che si trovava nel corridoio del convento. Con tutta la forza che gli rimaneva la fece roteare nell’aria, colpendo il capo del cinese. Wu si accasciò a terra privo di sensi, simile a un pachiderma colpito a morte.

Lorenzo premette i moncherini delle dita contro la tunica. Non aveva tempo per preoccuparsi dell’emorragia: il samurai era un avversario tanto pericoloso quanto abile con la spada.

Il Muqatil con una finta lo sollecitò a portare un affondo verso una parte del torace apparentemente scoperta dalla guardia.

Hito Humarawa raccolse l’invito e avanzò. Rapido come il vento, Lorenzo riprese posizione, parò il colpo e menò una sciabolata al fianco dell’orientale.

Il samurai premette la mano contro il fianco destro, per ritrarla immediatamente imbrattata di sangue.

I duellanti ripresero a fronteggiarsi a distanza, misurando i propri passi e cercando il punto debole dell’altro.

Salìm irruppe nel corridoio; il samurai gli dava le spalle e non avrebbe potuto fare altrimenti, se non voleva essere passato a fil di lama da Lorenzo.

Il giovane saraceno non ebbe esitazione, caricando da tergo colui che stava fronteggiando il Muqatil. La punta della sua spada si conficcò poco sotto la scapola destra del giapponese. Il respiro di Humarawa si trasformò in un sibilo sinistro, mentre il guerriero si accasciava in ginocchio.

La lama del Muqatil si fermò all’altezza della gola del suo avversario ormai impotente. Gli occhi neri del guerriero giapponese non lasciavano trasparire alcuna paura.

«Dove avete portato Diletta?» chiese Lorenzo, premendo sulla carotide del samurai.

L’altro non rispose, limitandosi a sostenere lo sguardo di chi stava per ucciderlo.

«Dimmi dove l’avete portata e avrai salva la vita.»

Ancora silenzio. In quel momento il colorito del giapponese divenne cereo, il suo sguardo si annebbiò e Humarawa si accasciò a terra privo di sensi. Il silenzio tornò a regnare all’interno del convento, ma fu una questione di pochi istanti: invocazioni d’aiuto della superiora e delle altre monache risuonarono in quel luogo di preghiera.

«Presto, andiamocene da qui», ordinò Lorenzo riponendo la sciabola.

Salìm invece estrasse il pugnale, pronto a infliggere il colpo di grazia al samurai ferito.

«Fermati! Che cosa stai facendo, Salìm?» disse il Muqatil.

«Voglio mandare questo orientale a fare una visita ai suoi dei infernali per l’eternità», rispose il giovane saraceno.

«Un tale combattente merita di morire in battaglia. Lascia che sia Dio a reclamare la sua vita. E se Dio misericordioso ritenesse che non è ancora giunto il suo momento, credo sia giusto che un valoroso come lui muoia con le armi in pugno.»

Tra le calli nebbiose si aggiravano ancora nottambuli reduci da qualche baldoria del carnevale.

Le grida di aiuto delle monache, mentre il Muqatil e i suoi perquisivano il convento alla ricerca di Diletta, stavano radunando alcuni curiosi intenti a smaltire gli eccessi di libagioni con la fresca aria della notte. Nessuno di loro ebbe però il coraggio di fronteggiare i tre uomini armati e decisi a tutto che, come furie, uscirono dall’ingresso del monastero, dileguandosi nella nebbia che avvolgeva la città e risalendo a bordo della barca che li attendeva.

Febbraio 2002

La città di Denver era affollata di turisti, capaci di far quasi raddoppiare la sua popolazione, attestata sul mezzo milione di anime. La stagione invernale era in grado di richiamare nella capitale del Colorado, ai piedi delle Montagne Rocciose, una folla di appassionati dello sci e degli sport invernali in genere.

Denver era nata come meta di cercatori d’oro nel 1859, quando sparuti gruppi di pionieri inseguivano miraggi di ricchezza nel pericoloso territorio di caccia di arapaho e cheyenne. Un generale dell’esercito, William Larimer, aveva pensato di riunire l’insieme degli accampamenti minerari con l’ambizione di farne una città. A questo proposito si fece assegnare dal governatore James Denver una concessione per fondare un agglomerato urbano, con la promessa che la edificanda città avrebbe preso il nome dallo stesso governatore. Denver cambiò mille volte aspetto negli anni che seguirono la corsa all’oro, fino a diventare l’odierno centro culturale e commerciale della middle America.

Oswald Breil aveva percorso i milletrecento chilometri che separavano Las Vegas dalla capitale del Colorado mantenendo un’andatura costante di novanta chilometri orari: era inutile che qualche solerte agente lo identificasse per un banale eccesso di velocità. Doveva rimanere da solo, coperto dall’anonimato e quanto più lontano possibile dal mondo per riuscire a mettere a punto e a portare avanti il suo piano.

Circa venti ore prima aveva abbandonato il Glamour Hotel di Las Vegas con un’aria soddisfatta: almeno non sarebbe stato da solo a combattere pericolosi nemici come Yasuo Maru e l’organizzazione criminale giapponese di cui il Signore delle Acque era a capo. L’ultima cosa che aveva fatto, prima di lasciare la città del Nevada, era stata quella di imbucare la lettera di dimissioni: la missiva di posta celere sarebbe stata sul tavolo del presidente della Repubblica israeliana e del vice primo ministro poche ore più tardi.

Breil percorse la statale numero 70, costeggiando gli edifici del Denver Federal Center. Sul sedile del passeggero stava piegato un quotidiano. La foto in prima pagina ritraeva il primo ministro israeliano nel corso del recente colloquio segreto con l’esponente palestinese. Le prove della corruzione di Breil parevano schiaccianti.

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