Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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A bordo dello Shimakaze , Grégoire Funet indicò il catamarano che dirigeva verso di loro. Il francese cercava di mantenersi lucido, nonostante i suoi riflessi fossero rallentati dalle abbondanti dosi di scopolamina assunta nel tentativo di placare il mal di mare.

«Ci stanno venendo addosso… anzi, anzi… no… Provano a passare a prora. Presto, comandante, mandi le macchine avanti e cerchi di bloccare il passaggio tra noi e la terraferma. Non ci devono sfuggire!»

Lo Shimakaze si mosse, andando lentamente a sbarrare con la sua mole il varco di prora.

Vittard stava proprio aspettando quella manovra.

I trenta metri del catamarano sembravano volare sull’acqua. L’imbarcazione era in planata, quando improvvisamente invertì la rotta di novanta gradi. Durante la strambata le vele rimasero qualche secondo a sbattere, poi si gonfiarono di nuovo e il C’est Dommage prese a correre verso la poppa della nave giapponese.

«Presto, comandante, hanno invertito la rotta. Vogliono passare di poppa. Macchine indietro!» gridò il solito Funet con l’espressione di un indemoniato.

«Ci vorranno alcuni secondi prima che la nave risponda», ribatté il comandante, manovrando sul dispositivo di indietro tutta.

Lo Shimakaze cominciò a muoversi quando il catamarano stava virando una seconda volta, ormai giunto nei pressi della poppa della nave giapponese.

Vittard osservò le minacciose strutture che sovrastavano di alcuni metri il ponte del catamarano. Erano vicine, molto vicine.

Il C’est Dommage stava sfilando sotto la poppa dello Shimakaze , che gli si avvicinava sempre più.

L’opera morta in ferro urtò lo spigolo dello sperone di destra. Vittard valutò con uno sguardo la non gravità del danno, poi chiese ai suoi di lascare nuovamente le vele: dinanzi a loro, finalmente, c’era il mare aperto. Il catamarano era riuscito a forzare il blocco.

Grandi e Jalard salutarono la perfetta manovra con un urlo di gioia, poi tornarono a concentrarsi.

«Non è ancora finita», disse Henry. «Tra poco inizieranno a inseguirci… anche se… anche se…»

«Anche se?» chiesero Grandi e Jalard a una sola voce.

«Con vento e mare in queste condizioni abbiamo qualche probabilità di essere più veloci di loro.»

Vittard regolò il timone e le vele per un’andatura al lasco, quella con cui la sua imbarcazione riusciva a raggiungere le massime prestazioni. Quindi si voltò verso la sagoma minacciosa del caccia che, abbandonata la baia di punta Marsala, si era messo sulle loro tracce.

«Stiamo viaggiando a ventisei nodi. Non credo riusciranno a tenere il nostro passo.»

In effetti, le onde gigantesche non consentivano ai motori dello Shimakaze di scatenare tutti i loro settantamila cavalli. Il caccia stava perdendo terreno, mentre il catamarano pareva non temere le condizioni avverse del mare. Allontanatosi dalla costa, il C’est Dommage navigava sicuro verso il mare aperto.

Il razzo sibilò nell’aria con un fischio acuto. L’albero in lega parve incendiarsi. L’intera struttura del catamarano tremò e la detonazione fu tale da provocare un dolore quasi insopportabile alle orecchie dei tre marinai.

L’albero ondeggiò prima a destra e poi a sinistra e alla fine si piegò come uno stecco di latta, precipitando in mare in un groviglio di vele, scotte, drizze e sartie.

Henry osservò incredulo il moncone di una decina di metri: era tutto ciò che rimaneva dell’albero della sua barca. Nel punto in cui il razzo si era schiantato, era visibile uno squarcio nero costellato dalle schegge del proiettile.

Lo Shimakaze accostò sopravento. Vittard e i suoi alzarono gli occhi verso il bordo del caccia. Numerosi uomini con armi automatiche puntate verso di loro li indussero ad alzare le mani in segno di resa.

Venezia, 1337

«La tua vita per tua figlia, Angelo Campagnola.» La mano ferma del Muqatil premeva la lama sulla carotide del nobile veneziano.

«Come posso sapere dove hanno condotto Diletta?» disse Campagnola, terrorizzato dallo spettro della morte. Poi si fermò un istante, folgorato dall’intuizione. «Potrebbero averla portata a casa di Crespi. Il mercante è il solo amico dell’orientale.»

L’imbarcazione si mosse tra i canali nebbiosi, guidata dalle indicazioni di un Campagnola resosi all’improvviso collaborativo.

La figlia di Lorenzo di Valnure, cullata dal moto ondoso, aveva smesso di piangere e si era addormentata.

Dopo pochi minuti di navigazione, la barca si fermò nei pressi di un edificio finemente decorato.

«Ecco, là vive il mercante», esclamò il Campagnola indicando la casa. «Se Diletta non dovesse trovarsi lì dentro, non riuscirei proprio a immaginare dove possano averla nascosta.»

Febbraio 2002

L’ispettore Iku si guardava attorno con aria indagatrice, come se il normalissimo ufficio del responsabile delle relazioni economiche all’ambasciata israeliana fosse disseminato di diavolerie elettroniche degne di 007.

Milano lo invitò a sedersi, poi inserì una cassetta nel lettore.

«Questa signora», disse l’ufficiale del Mossad commentando le immagini, «che indossa la divisa da addetta alla distribuzione interna della posta alla Water Enterprise è Genji Enshigoju. Come vede, ispettore, la sua ‘cliente’ spinge un carrello piuttosto voluminoso. Questa è invece la ripresa della Enshigoju che esce dalla sede della Water Enterprise. Non ha più lo stesso abbigliamento e non spinge il carrello, anzi veste con la solita eleganza occidentale. Esattamente alle quattro e venti di quella mattina, all’entrata di servizio della multinazionale, si è presentato il furgone di una lavanderia e due fattorini hanno ritirato un grosso sacco di tela.»

Iku annotò nel suo taccuino il nome della lavanderia che appariva sulle fiancate del furgone.

«Non si scomodi, ispettore. Nel raggio di cento chilometri da Tokyo non esiste una lavanderia con quel nome. Piuttosto le suggerisco di prendere nota di questi numeri.» Così dicendo, Milano porse un foglio di carta all’ispettore. «Sono gli estremi di un bonifico di duecentomila dollari trasferiti dal conto di Yasuo Maru a quello di Genji Enshigoju. Operazione effettuata presso un istituto di credito svizzero il giorno seguente a quello a cui s riferiscono le riprese.»

«Tutto sembra tornare», disse Iku. «Una bimba brasiliana venduta a due emissari di Genji Enshigoju pochi giorni prima. La maitresse che entra alla Water Enterprise con un carrello dove può benissimo essere nascosta una bambina. Poche ore più tardi, una fantomatica lavanderia viene a ritirare un sacco voluminoso e pesante. E la nostra amica Enshigoju riceve la consistente somma di duecentomila dollari per un servizio del tutto speciale. Lei crede che quella bambina sia ancora viva, Milano san

«Mi auguro di sbagliarmi, ma non credo sia sopravvissuta ai suoi aguzzini, ispettore Iku», rispose il maggiore del Mossad, omettendo volutamente il contenuto della telefonata udita da Kuniko: il segretario personale di Yasuo Maru che chiama una lavanderia, perché il suo padrone si era divertito quella sera.

«Indizi… Sono solamente indizi…» continuò Iku con un moto di rabbia. «E per incastrare uno tra gli uomini più potenti del pianeta abbiamo bisogno di molto di più di quelle che un mediocre avvocato riuscirebbe a smontare come semplici coincidenze. Siamo deboli, Milano san , siamo molto deboli, senza neppure una prova.»

Il telefono nell’ufficio di Milano prese a suonare.

Ezer e Lilith Habar si erano trasferiti a Denver molti anni prima, quando il professor Habar, una vera autorità in materia di energia nucleare, era diventato il direttore del Rocky Flats Plant, la grande centrale alla periferia nord-ovest della città. Prima di allora, lui e la moglie vivevano in una villetta in un quartiere residenziale di Tel Aviv e Lilith, più per passione che per altro, impartiva lezioni di yiddish ai bambini del vicinato. Tra questi ce n’era uno che la donna amava particolarmente: quel ragazzino sembrava non risentire del fatto che i suoi coetanei crescessero in altezza, mentre l’unica cosa che sembrava crescere in lui erano la viva intelligenza e un’inarrestabile voglia di avventura.

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