Nelle discussioni che lungo il cammino avevano avuto modo di carpire dai molti crocchi di mercanti intenti a contrattare, pareva che la morte di Nerone fosse l’argomento principale di conversazione.
Chissà che cosa avrebbero pensato quegli uomini se avessero riconosciuto il divino Cesare in quel pescatore con gli abiti lerci e lisi che avanzava sorreggendo una capiente cesta, con un cappellaccio calato sulla fronte.
Il peschereccio distava ormai pochi passi. Una voce dai toni militareschi ebbe il potere di raggelare il sangue nelle vene di Lisicrate.
«Ehi, voi due, fermatevi!» intimò un soldato alle loro spalle.
La mano di Lisicrate corse verso la spada che teneva nascosta sotto le vesti: se li avessero scoperti, avrebbe comunque tentato un’ultima reazione. Con stupore, però, il greco si accorse che il militare non aveva alcuna intenzione di identificarli, ma solo di far sgombrare la strada per un drappello che stava sopraggiungendo. Una quindicina di soldati aprivano il breve corteo, altrettanti lo chiudevano. Al centro della scorta si trovava una portantina sorretta a braccia da una decina di schiavi. Le tende erano socchiuse. Il volto di Simon Mago apparve per un istante. I suoi occhi scuri e inquietanti vagarono in direzione di due liburne ormeggiate agli approdi riservati alle navi da guerra: quasi certamente quella era la destinazione del drappello.
La stiva era maleodorante e angusta. L’unica presa d’aria era costituita da uno spiraglio nel boccaporto di legno.
Nerone si era comportato con un esemplare sangue freddo per tutto il tempo del loro tragitto a piedi lungo il molo. Finalmente al sicuro, all’interno del peschereccio, parve cedere.
«Guarda com’è ridotto l’uomo più potente al mondo», piagnucolò rivolto a Lisícrate, indicando nella penombra le pareti incrostate di scaglie di pesce e i suoi vestiti logori.
«Non ti preoccupare, Nerone. Una volta in Egitto riacquisterai potere e prestigio, e non è detto che un giorno tu non possa tornare a Roma acclamato dal tuo popolo», disse Lisicrate, cercando di consolarlo.
«Ma tu sei convinto, mio fedele amico, che siano il potere e il prestigio le cose che ancora mi interessano? Non sarebbe forse meglio una vita normale, spesa a coltivare ciò che veramente mi diletta?»
La barca da pesca sfilò nei pressi delle prore maestose delle liburne. Lisicrate osservò attraverso la fessura: Simon Mago stava in piedi al centro del ponte, mentre intorno i marinai della flotta imperiale erano indaffarati nelle manovre di disormeggio.
Venezia, 1337
All’interno del monastero regnava un silenzio irreale. Lorenzo di Valnure si muoveva nella penombra con sufficiente dimestichezza: nel corso del suo precedente soggiorno aveva memorizzato il percorso che lo avrebbe condotto alla cella nella quale si trovava la donna che amava.
Floriano, sempre travestito da francescano, lo seguiva in silenzio lungo le scale che portavano alle celle. Lorenzo aveva preferito condurre con sé soltanto l’anziano famiglio dei Valnure. Due uomini sarebbero stati sufficienti per liberare Diletta. Gli altri componenti del drappello erano rimasti sull’imbarcazione ormeggiata in un canale nei pressi del convento, dopo aver seguito da lontano i movimenti dei due finti frati, pronti a intervenire in caso di necessità. Ora Salìm, il giovane luogotenente del Muqatil, si divideva tra la custodia di Angelo Campagnola e la cura della piccola, fortunatamente immersa in un sonno profondo.
Il chiavistello in legno non emise alcun rumore, e Lorenzo di Valnure entrò nella cella.
Le dimensioni anguste della stanza non avevano consentito a Hito Humarawa e al suo fedele Wu di nascondersi come avrebbero voluto. Il samurai si era appiattito al muro a ridosso della battuta della porta, mentre il massiccio cinese si era adagiato sul letto e aveva tentato di dissimulare la sua mole tirandosi addosso una coperta. Il cardine si mosse verso l’alto e, con lentezza esasperante, la porta della cella si socchiuse.
Non appena lo spiraglio fu sufficiente, il Muqatil gettò lo sguardo all’interno della stanza: il buio regnava assoluto.
Possibile che Diletta non lo stesse aspettando? E se, nel frattempo, le fosse stata cambiata la cella? Furono forse queste domande e l’attimo di incertezza che ne seguì a salvare la vita a Lorenzo.
La porta cessò di ruotare sui cardini: era tempo di uscire allo scoperto.
Hito Humarawa balzò fuori dal suo nascondiglio, con la katana in pugno.
Il Muqatil non si lasciò prendere di sorpresa: frappose l’uscio tra sé e l’assalitore, indietreggiò di un passo e sguainò la spada.
I due esperti guerrieri si fronteggiavano, illuminati dalla luce fioca del corridoio.
«Finalmente riesco a guardarti negli occhi», disse il Muqatil brandendo la sciabola.
In quell’istante la figura di Wu occupò quasi interamente lo stipite. Il gigante stava per lanciarsi addosso a Lorenzo quando, con la spada in pugno, Floriano distolse la sua attenzione, invitando il cinese al combattimento.
I colpi secchi delle lame che cozzavano l’una contro l’altra riempirono il silenzio in cui era avvolto il monastero.
Febbraio 2002
Erano trascorse poco più di due ore da quando l’aereo del primo ministro israeliano era decollato dalla base di Sigonella. Oswald Breil pareva calmo, malgrado le preoccupazioni che affollavano la sua mente. Prima fra tutte la misteriosa sparizione della dottoressa Terracini. Il piccolo uomo accese il computer nella vana speranza che comparisse un messaggio di Sara. Vi trovò invece un breve testo, inviatogli dal solito indirizzo giapponese impossibile da rintracciare.
‹MI CHIEDO CHE COSA POTRÀ FARE ADESSO NELLA VITA, DOTTOR BREIL. UNA PERSONA DOTATA DELLE SUE CARATTERISTICHE FISICHE POTREBBE TROVARE UN OTTIMO IMPIEGO PRESSO UN CIRCO.›
L’insulto non turbò più di tanto Oswald, anche perché, quasi nello stesso istante in cui terminava la lettura del messaggio, il telefono squillò.
Breil alzò la cornetta, buio in volto. Chiese soltanto alcune delucidazioni riguardo alla terribile notizia che gli era stata data.
«Derrick Erma?» ripeté il piccolo uomo con aria incredula e, avuta conferma dell’omicidio del capo del Mossad, riuscì solamente a dire: «Capisco», prima di chiudere la comunicazione.
Per la prima volta nella sua vita, Oswald Breil si sentì solo.
Bruno Milano rimase dietro la vetrata della sua stanza al nono piano del Keio Plaza Hotel in Aoyama-Dori. Dalla finestra della lussuosa suite poteva osservare buona parte del grattacielo della Water Enterprise. Con calma montò la telecamera sul cavalletto, orientandola verso l’ingresso principale. Poi sedette in una poltrona, puntò il binocolo e restò in paziente attesa, fino a quando qualcuno non bussò alla sua porta.
Il maggiore del Mossad si alzò e aprì l’uscio.
L’ispettore Iku stava in piedi davanti all’entrata della suite con un sorriso dipinto sul volto.
«Vedo che l’ambasciata israeliana tiene molto al comfort dei propri funzionari, a giudicare dal trattamento a lei riservato. Dobbiamo parlare a lungo, Milano. A meno che lei non preferisca essere rimpatriato con l’accusa di spionaggio.»
La Sorbona aveva lavorato senza sosta, guidata dalle mani esperte dei due sommozzatori.
Il legno scuro emerse dalla sabbia candida come la sommità di un iceberg dal mare. L’ammiraglio Grandi, che in quel momento stava dirigendo il tubo aspirante, azionò il comando che bloccava il flusso.
Il relitto emergeva di pochi centimetri. Aveva una forma sfondata. L’impazienza si impadronì dei due uomini: misero di nuovo in funzione la Sorbona, cercando di liberare il voluminoso manufatto di cui quel legno scuro e antico rappresentava una parte.
Entrambi sapevano però che non sarebbe stata un’impresa facile riportare alla luce il relitto: la sabbia fine franava continuamente nello scavo e i due subacquei dovevano altresì combattere contro i tempi limitati imposti loro dalle più elementari regole di immersione.
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