«Prossimi alla scoperta?» domandò Oswald. «Le dispiace fornire ulteriori particolari, ammiraglio?»
Fu invece Vittard a prendere la parola e, dopo aver dispiegato un foglio di carta termosensibile, simile a quella del fax, indicò una macchia scura in quello che sembrava il rilievo del fondale.
«Guardi questo, dottor Breil», disse Vittard indicando una figura a forma di fungo, «è uno scoglio enorme che si trova quasi al centro della pianura di sabbia sottomarina. Naturalmente, ne spuntano soltanto pochi metri: buona parte della roccia, erosa dai millenni, è sepolta sotto tonnellate di sabbia. Questa macchia nera qui vicino sembra invece avere una forma troppo precisa per essere opera della natura. Nel corso della nostra immersione odierna, abbiamo predisposto la Sorbona. Saranno necessari un paio di giorni di lavoro per arrivare a quello che riteniamo sia un relitto sommerso sotto sei metri di sabbia.»
«Un paio di giorni… Un paio di giorni…» ripeté Breil quasi stesse pensando a voce alta. «Cercherò di aumentare la sorveglianza. Ricordatevi di stare sempre all’erta. Abbiamo a che fare con persone molto pericolose.»
A questo punto, il primo ministro compose un numero sulla tastiera del suo telefono portatile. L’elicottero ricomparve dal nulla e si posò quasi nello stesso punto del primo ammaraggio.
Breil salutò cordialmente i due uomini, mentre Jalard lo aspettava sul gommone per ricondurlo a bordo del velivolo.
Roma imperiale, anno di Roma 821 (68 d.C.)
La casa si affacciava sul porto di Ostia. Era stata scelta da Lisicrate alcuni mesi prima e acquistata con i denari che Nerone aveva messo a disposizione per attuare il piano di fuga. Era una piccola abitazione, molto semplice e sobria, affacciata sul porto commerciale, ideale per tenere sotto controllo il molo al quale avrebbe attraccato la nave venuta a prelevare il prezioso carico umano.
Lisicrate aveva anche acquistato una piccola barca da pesca. Su questa aveva ingaggiato marinai originari dell’isola del Giglio, da sempre fedeli agli Enobarbi, e aveva disposto affinché il peschereccio continuasse la sua abituale attività: in una situazione così grave da rendere necessario l’allontanamento di Nerone, ogni sia pur minima anomalia avrebbe potuto dare nell’occhio.
«Anche nel pianificare la mia fuga sei stato lungimirante e attento, Lisicrate», gli aveva detto Nerone osservando, protetto dagli scuri delle finestre, la nave da pesca ormeggiata nei pressi della casa.
«Dobbiamo aspettare ancora qualche giorno, mio imperatore. La notizia della tua morte si va diffondendo e tra non molto i controlli saranno meno intensi. A quel punto potremmo ricongiungerci con Aniceto e trasbordare sulla nave imperiale.»
A Roma ci si era chiesto il motivo di tanta magnanimità da parte dell’imperatore: Aniceto aveva apertamente confessato l’adulterio con Ottavia e non era stato condannato alla pena capitale, bensì all’esilio. Qualcuno aveva vociferato che il fedele ammiraglio si era prestato a essere complice di un piano ben orchestrato e che sarebbe rimasto per sempre un uomo di Nerone. Mai come in quella occasione nella maldicenza popolare c’era un fondo di verità: Aniceto era riparato in Corsica, dove aveva assunto il comando della nave d’oro, pronto a correre in aiuto del suo imperatore quando ce ne fosse stato bisogno.
Il liberto Elio era l’unica persona, oltre a Lisicrate, Epafrodito e i diretti interessati, a conoscenza della sostituzione di Nerone.
Giunse nella casa di Ostia all’alba del giorno della partenza e raccontò con enfasi e dovizia di particolari quello che era accaduto nelle convulse giornate che avevano visto la fine della dinastia giulio-claudia.
«Settimio si è immedesimato nella parte dell’imperatore disperato: vagava per le stanze della reggia, ha offerto la daga al gladiatore Spiculo, pregandolo di recidergli la gola con un sol colpo. Ottenuto un rifiuto dal fedele gladiatore, ha chiesto che venisse condotta a lui Lucusta e l’ha incaricata di preparare una pozione letale. Poi ci ha ripensato, è corso a impartire ordini ai pochi militari che non stavano acclamando Galba nuovo Cesare. Già, perché nessuno, eccetto Sporo, Faone, Epafrodito e Neofito, era rimasto al fianco del potente in disgrazia. Un grande artista, mio imperatore, un grande artista, anche se non sapeva quale sarebbe stato l’epilogo del dramma!»
«Perdonami, mio signore», aveva aggiunto Elio, rendendosi conto di usare termini troppo irriverenti nei confronti di un Cesare, «ma ciò che ti ho riferito e che andrò a dirti corrisponde al vero. E se le mie espressioni nei riguardi di chi in quel momento, di fatto e per tutti, era Nerone dovessero risultare irriguardose alle tue orecchie, ti prego di fermarmi.»
Nerone sembrava un bambino, eccitato dall’aver combinato uno scherzo di enormi proporzioni. Ormai era come svuotato da ogni brama di potere e di rivincita: tutto ciò che desiderava in quel momento era correre il più lontano possibile da Roma.
«Vai avanti, mio fedele Elio. Voglio conoscere dalla tua voce com’è andata a finire.»
«Faone ha consigliato a colui che riteneva fosse l’imperatore di rifugiarsi in una villetta tra la via Salaria e la via Nomentana, una casa modesta, che il liberto aveva acquistato per trascorrervi la vecchiaia. Settimio, sempre preso dalla parte, ha calzato un cappello da schiavo, si è gettato sulle spalle un mantello ed è corso alle stalle, accompagnato dallo scarno seguito. In cinque hanno attraversato quasi l’intera città, imbattendosi in squadre di militari che correvano verso la reggia per fare giustizia e per proclamare il nuovo imperatore.»
Nerone lo stava a sentire come se stesse ascoltando una storia fantastica che non lo riguardava per nulla. Elio fece un attimo di pausa e continuò.
«Io sono giunto alla casa di Faone poco dopo gli altri. Ancora stavano liberando la parte posteriore della villa da un cespuglio di rovi che impediva di accedervi attraverso un ingresso secondario. Il tuo sosia, mio imperatore, si è inginocchiato a quattro zampe, strappandosi la tunica e ferendosi con le insidiose spine dei rovi per entrare nella villa. Lì giunto, si è sdraiato su un letto sudicio, sul quale Faone aveva adagiato un vecchio mantello. Non appena mi ha visto, Settimio si è rinfrancato: per quanto ne sapeva lui, Epafrodito e io dovevamo assicurargli la fuga, dopo la sua magistrale interpretazione. Quando Sporo e Faone gli hanno proposto di darsi onorevolmente la morte, prima che sopraggiungessero gli uomini di Galba, il falso imperatore ha così risposto: ‘La morte? La morte? Le antiche civiltà mi aspettano per proclamare me loro guida. E se poi io morissi, quale artista morirebbe con me?’ Quest’ultima frase è stata ripetuta un’infinità di volte, tanto che, temendo Epafrodito e io che Settimio stesse per cedere e rivelare lo scambio di persona, avevamo pensato di mettere in pratica il piano di fuga concordato. E questo avremmo fatto, se non fosse sopraggiunto, nei pressi della villa, un drappello di pretoriani per arrestare l’imperatore. A quel punto la fuga era diventata impossibile e rimaneva una sola cosa da fare: una volta tratto in arresto, Settimio avrebbe sicuramente rivelato la sua identità. Epafrodito ha preso una daga e, mentre il sosia citava un verso dell’ Eneide , ‘Un galoppo di feroci corsieri ferisce le mie orecchie!’, preparandosi alla fuga, il liberto a te fedele sino all’estremo sacrificio gli ha trafitto la gola.»
Nerone non fece nulla per nascondere la sua aria compiaciuta; pronunciò alcune parole di circostanza sull’ultima abile interpretazione dell’attore, ma convenne che era meglio Settimio morto e sepolto al suo posto che non una turba di pretoriani alla ricerca del vero imperatore scomparso. Fece cenno a Elio di proseguire.
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