«Anche stavolta», pensò Sara quando l’aria fredda la avvolse, «abbiamo contribuito ad aprire una finestra sulla storia degli uomini. Da quella finestra sono uscite informazioni e, mi auguro, segni tangibili di una tra le più affascinanti civiltà che abbia mai abitato il pianeta.» Ormai era sufficiente che Grandi e Vittard individuassero il relitto e recuperassero qualche altro reperto. Quindi avrebbero seguito la prassi legale, con denunzia alle autorità italiane. Magari si sarebbero loro stessi occupati della ricerca di un finanziatore per portare alla luce quanto restava della nave di Nerone… E poi? si chiese… E poi quell’avventura sarebbe veramente finita. «Veramente?» tornò a domandarsi Sara Terracini, mentre due uomini avanzavano verso di lei nella via deserta.
«Ho saputo che avete avuto un volo piuttosto movimentato, signore», disse l’autista della Mercedes blindata che era ad attendere il Falcon del governo israeliano sulla pista di atterraggio.
Oswald Breil annuì con un sorriso. Entrò nella macchina e il piccolo corteo di sei auto, composto da agenti speciali e guardie del corpo personali del premier, si mise in moto.
Comodamente seduto sui sedili in pelle della berlina, Oswald collegò di nuovo il computer in rete: pensò che era la prima volta che non apriva immediatamente un messaggio di Sara.
‹HO FINITO!!! PECCATO TU SIA SOLO MARGINALMENTE COINVOLTO IN QUESTA STORIA. POSSIEDE TUTTI GLI ASPETTI DI UNA DI QUELLE CACCE AL TESORO CHE PIACCIONO TANTO AL MIO AMICO BREIL. DOPO UNA SETTIMANA DI LAVORO, UNA DOCCIA CALDA E UNA BELLA DORMITA NEL MIO LETTO MI ASPETTANO. FINALMENTE! SHALOM, SARA.›
Oswald scosse la testa preoccupato: Sara avrebbe dovuto comunicargli quella notizia con un po’ di anticipo. Non era prudente che la ricercatrice abbandonasse il laboratorio senza sorveglianza: le persone con cui avevano a che fare potevano essere molto pericolose.
Le dodici sonde metalliche erano scese, in alcuni casi, per una dozzina di metri sotto la coltre di sabbia. Erano costituite da tubi di acciaio cavi del diametro di pochi centimetri. Subito a ridosso della punta a vite veniva collocata una minicarica di esplosivo. Il loro funzionamento era simile a quello delle trivelle petrolifere: congiungendo alcune prolunghe, si potevano raggiungere discrete profondità, sotto uno strato soffice di terreno o, come in quel caso, di sabbia. Henry e Grandi avevano lavorato sott’acqua per un’intera giornata, mentre Jalard offriva loro l’appoggio logistico necessario a bordo del catamarano. Il giorno seguente il campo di ricerca sarebbe stato finalmente predisposto a quel nuovo tipo di esame.
La simultanea detonazione delle cariche e la conseguente propagazione dell’onda sismica, letta da opportuni strumenti che si trovavano a bordo del C’est Dommage , avrebbero dovuto tracciare una mappa del banco di sabbia e di eventuali oggetti solidi presenti in esso. Compresi quindi anche i relitti, ma non solo: il sismografo avrebbe «letto» anche grandi sassi, scogli e strati di fondale, rendendo di non facile decifrazione l’interpretazione del tracciato.
Il mattino dopo si svegliarono presto, a bordo del catamarano. Grandi, addetto al rito del caffè, preparò una bevanda calda e forte, capace di far scomparire ogni traccia della notte appena trascorsa.
Vittard uscì dalla sala carteggio con aria entusiasta: «È arrivato! Sara ha inviato ieri sera l’intera traduzione delle memorie contenute nei papiri!»
«Dov’è?» chiese Grandi con vivo interesse.
«Ne ho stampato due copie. Non crederà che la lasci senza lettura, ammiraglio. Quando torneremo a bordo dalla prossima immersione spero che la stampante abbia terminato il suo lavoro: si tratta di un’ottantina di cartelle. La nostra bella Sara è stata di parola: ha chiesto una settimana e una settimana è stata. Chissà come sarà felice e soddisfatta adesso che si è levata questo peso di dosso.»
Ma il peso che gravava sulla testa di Sara Terracini, in quel momento, era di tutt’altra natura.
La sera precedente era uscita dal laboratorio e, quando aveva incrociato i due orientali che venivano dall’opposto senso di marcia, aveva pensato a quanta gente abbandonasse il proprio paese e le proprie usanze per inseguire il miraggio del benessere, per poi rimanere delusa. Ma era stato un pensiero breve, immediatamente cancellato dal tampone di anestetico premutole sulla faccia.
Sara si svegliò all’interno di una stanza buia. Aguzzò gli occhi, con la testa che le doleva terribilmente, senza riuscire a scorgere nemmeno un contorno di ciò che la circondava: l’oscurità era assoluta. Un paio di manette le stringevano i polsi, un altro paio le caviglie.
«Calma, Sara», si disse. «Fai un rapido esame di coscienza e troverai la ragione per cui ti trovi qui.»
Inevitabilmente le venne alla mente la meravigliosa storia di Lisicrate. Non c’erano altri motivi per rapirla, se non i segreti di Nerone e della sua nave d’oro.
Roma imperiale, anno di Roma 821 (68 d.C.)
Il volto di Nerone era sconvolto: «Presto, Lisicrate, alzati, dobbiamo andarcene».
Il primo caldo di quelle notti di giugno, solo leggermente attenuato dal verde che circondava la dimora imperiale, avvolgeva l’interno della Domus Aurea. Forse non era il caldo, ma la preoccupazione a far sì che Lisicrate faticasse ormai da tempo a prendere sonno: molti avvenimenti si erano tumultuosamente susseguiti dal loro rientro dalla Grecia, e ben pochi di questi potevano essere considerati positivi.
Vindice era il giovane governatore della Gallia Lugdunense e fu il primo a ribellarsi, verso la metà del mese di marzo, all’imperatore.
Il trentaquattrenne emissario imperiale non era però dotato di forze tali da impensierire un impero, se l’impero avesse reagito compatto contro il ribelle.
Quello era da considerarsi il primo sintomo di una malattia che minava il Senato e la nobiltà, ma Nerone lo sottovalutò.
L’imperatore si trovava a Napoli quando scoppiò la rivolta in Gallia e, invece di rientrare a Roma e prendere gli opportuni provvedimenti, si limitò a inviare una richiesta scritta al Senato in cui chiedeva di ratificare la messa al bando di Vindice.
«Sono stanco di questa vita, Lisicrate», si era confidato in quei giorni l’imperatore. «Spesso, mio buon amico, cerco di immaginare come sarebbe un’esistenza normale, senza i fasti di un impero, senza le mille paure e gli obblighi infiniti che questo comporta.»
Forse la mente di Nerone era davvero schiacciata dal peso del potere. Tant’è che l’imperatore rimase sempre più indifferente nei confronti delle minacce di rivolta che provenivano da varie province.
Una in particolare, la Spagna, governata ormai da otto anni da Sulpicio Galba, un uomo dispotico e arrogante, mostrava evidenti segni di irrequietezza.
E finalmente, il secondo giorno del mese di aprile, Galba ruppe ogni indugio e insorse, proclamandosi «rappresentante del Senato e del Popolo Romano».
Al fianco del governatore iberico si erano schierati il questore della Betica, Aulo Cecina, e l’antico amico di Nerone, Marco Otone.
«Sono finito!» disse Nerone quando apprese la notizia della rivolta, ma poi, dopo un leggero malore, si era ripreso, trovando la forza di recarsi a teatro.
Il giorno seguente l’imperatore agì adottando ogni provvedimento necessario per fronteggiare l’emergenza: fece dichiarare Galba nemico pubblico e dirottò due legioni pronte a partire alla volta della Cina sulle orme di Alessandro Magno per inviarle in territorio iberico. Ma ogni decisione presa da Nerone sembrava il frutto di una scelta obbligata, come se il peso delle responsabilità avesse soffocato in lui ogni velleità di vittoria. Forse l’imperatore aveva già compiuto la sua scelta. Le redini della partita erano ormai nelle mani di alcuni generali ancora fedeli all’imperatore.
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