Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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Erano ben altri i poteri di cui avrebbe dovuto essere dotato l’imperatore per sfuggire al declino irreversibile di cui era stato l’artefice.

Aveva dovuto interrompere il suo soggiorno in Grecia, facendo precipitoso ritorno a Roma per sedare le mire degli oppositori che parlavano di trono vacante.

L’aria che si respirava nella capitale e soprattutto a palazzo era carica di tensioni esasperate.

Nerone a volte pareva non rendersene conto; altre sembrava assillato dall’angoscia e, chiamato Lisicrate, rivedeva con lui i dettagli del piano che avevano progettato insieme per la fuga.

Nerone aveva convocato il Mago al suo cospetto pochi giorni dopo.

«Simone, ho ascoltato molti dei tuoi consigli e creduto a ogni tua parola. Ma ora è tempo che mi mostri lo spirito divino che dici di possedere», gli ingiunse Nerone con aria autoritaria.

Gli occhi penetranti di Simone furono capaci di fare abbassare lo sguardo all’imperatore.

«Mi dicesti un giorno che i tuoi dei erano capaci di farti librare nell’aria, non è vero?» chiese Nerone, che poi continuò: «Allora vola, novello Icaro. Vola!»

La piazza del Campo Marzio non era gremita, segno tangibile della caduta di popolarità dell’imperatore.

La torre in legno svettava a un lato, mentre di fronte, poco distante, era stata costruita una piccola tribuna dove Nerone aveva preso posto.

L’uomo, sulla cima della torre, indossava una maschera simile al becco di un uccello e la veste azzurra sacerdotale della setta di Simone. Due ali enormi erano collegate alle sue braccia mediante assicelle di legno leggero.

Ci fu un istante di silenzio: l’uomo si preparò, dispiegò le ali e spiccò il salto cadendo rovinosamente nel vuoto.

Alcune gocce di sangue macchiarono la tunica candida dell’imperatore. Nerone si alzò, disse qualche parola di circostanza per commemorare Simon Mago, uomo saggio a cui la troppa sapienza aveva offuscato la mente, facendo sì che si credesse un dio. Quindi comandò ai suoi di sfilare l’anello al malcapitato agonizzante che era precipitato dalla torre e reso irriconoscibile nell’impatto col suolo.

Nerone prese l’Anello dei Re dalle mani del soldato. Lo alzò al cielo. I raggi del sole primaverile illuminarono quell’oro antico, quasi volessero far luce sulla storia tumultuosa che aveva contrassegnato il gioiello recante il simbolo di re Salomone.

Penisola italica, 1336

«Il figlio di Satana!» gridò il Campagnola con gli occhi fuori dalle orbite. «Quello che tu tieni in grembo è il figlio di Satana! Quale disonore per il mio stimato nome… Ma farò in modo che nessuno mai sappia nulla. Sarai rinchiusa in un convento di clausura, spudorata figlia, dove potrai espiare le tue colpe. Quando il figlio tuo e di quel… quell’infedele verrà al mondo, ci penserò io ad affidarlo a una famiglia che lo adotti.»

«No, padre, ve ne prego. È il frutto della mia vita. Non privatemi del frutto della mia vita!»

«Il frutto del tuo peccato, sgualdrina!» Così dicendo, Angelo Campagnola colpì il viso della ragazza con la mano aperta.

Diletta si portò le mani al volto. Il suo sguardo non riusciva a esprimere odio, ma solo l’immenso timore di non poter tenere con sé la creatura che portava in grembo.

Il conte Giacomo di Valnure percorreva a passi lenti il grande salone del castello nei pressi di Piacenza che era stato dei suoi avi.

«Ma ti rendi conto, cugino mio, di quel che stai chiedendo?» chiese Giacomo scuotendo il capo.

«Quasi nulla… Non ho mai avanzato né pretese al titolo, né richieste della parte a me spettante del patrimonio della nostra famiglia», disse Lorenzo con modo gentile, ma risoluto.

«Credo, cugino mio, che la strada che hai scelto sia stata il frutto di una tua libera decisione…»

Giacomo di Valnure era una persona saggia e onesta, uno di quei nobili di campagna che non si limitavano a pretendere l’impossibile dai sudditi e dalla terra, ma che si prodigavano affinché il vasto podere dei Valnure venisse amministrato in maniera equa e produttiva.

«… e dal canto mio», continuò Giacomo, «mai e poi mai rivelerei il segreto di cui sono custode. Nessuno, nemmeno sotto tortura, riuscirebbe a farmi rivelare l’identità del Muqatil. Ti immagini se si venisse a sapere che la minaccia delle flotte cristiane è in realtà un nobile piacentino? Ma torniamo alla tua richiesta e al motivo che ti ha condotto nelle nostre terre dopo così tanti anni… Quelle che vuoi ottenere mio tramite non sono informazioni di pubblico dominio, anzi si tratta di cose coperte dal massimo riserbo: nonostante le mie altolocate amicizie veneziane, non credo mi sarà facile sapere dove si trova la donna che stai cercando, se, come tu dici, è stata allontanata dalla casa paterna. Comunque, concedimi un po’ di tempo. Vedrai che riuscirò a sapere dove si trova colei che ti sta a cuore. Nel mentre, vedrò che cosa posso fare per dotarti degli uomini fidati che mi hai chiesto.»

Diletta si accarezzò il ventre, poi, sottovoce, nell’angusto ambiente della sua cella di clausura, malamente illuminato da una candela, disse: «Se non fosse per te, frutto del mio amore, avrei già seguito il destino del solo uomo che ho amato e che amerò per sempre». Il volto sorridente del Muqatil si fece strada nella sua mente. Diletta pianse e le sue lacrime caddero sul pavimento.

«Questa vita… Questa vita è peggio della più terribile agonia. È peggio del destino a cui ero indirizzata: forse tra le braccia di un anziano nobile non avrei patito queste pene. Dio mio, perché hai fatto sì che io soffrissi in questa maniera? Perché non mi hai fatto morire assieme all’uomo che amavo? Perché non vuoi che io condivida la mia vita con mio figlio, sacro desiderio di ogni madre? Se proprio così hai deciso, non appena mio figlio mi verrà strappato dal grembo, farò sì che la mia inutile esistenza abbia a cessare.»

Febbraio 2002

Le mani di Sara erano percorse da un tremito leggero. Le ultime righe degli scritti di Lisicrate risaltavano sullo schermo, memorizzate all’interno degli asettici chip di un computer del terzo millennio.

Aveva finito, finalmente! Mancava solo quell’ultima enigmatica poesia scritta duemila anni prima e poi avrebbe spedito tutto a Vittard e Grandi.

Sara tradusse con rigore filologico quei versi antichi. Sembravano il messaggio d’addio di chi aveva vissuto da protagonista la Storia, o, perlomeno, un suo capitolo molto importante.

Calma e silenzi di mare, tempeste di acque infuriate.

Ricchezza e povertà, potere e disgrazia, vita e non vita.

Alterne sono le vicende, la natura. Relativo è l’apporto dell’uomo.

Che cosa fare di ricchezze infinite se la fine è prossima?

Lasciare a chi verrà un indirizzo, una via per capire.

Adesso il mare è calmo e il silenzio avvolge tutto, anche la fine.

È tanto grande il senso di pace da infondere paura.

Sara lesse e rilesse le ultime parole che concludevano i papiri scritti da Lisicrate. Sorrise con affetto, quasi volesse salutare il precettore greco, ringraziandolo per quanto era riuscito a tramandare. Quante emozioni avevano saputo infonderle quei resoconti!

Scrisse un breve commento al file che stava per spedire via posta elettronica, così da facilitarne la lettura a Henry Vittard e al suo amico ammiraglio. Quasi certamente il C’est Dommage era alla fonda a punta Marsala. Sotto il suo scafo si trovava con ogni probabilità una nave unica e meravigliosa, forse ancora in buono stato, dal momento che era stata imprigionata dalla sabbia per duemila anni.

Rimase per qualche tempo ancora seduta alla scrivania, dopo aver inviato all’indirizzo di posta elettronica del C’est Dommage il file che aveva chiamato La nave d’oro e un breve messaggio all’amico Breil. Poi pensò alle comodità del suo appartamento: sentiva il bisogno di tornare a casa, dopo un’intera settimana trascorsa nel laboratorio. Il computer segnalò con il consueto segnale che aveva avviato le procedure di spegnimento.

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