Lucio Virginio Rufo comandava la grossa concentrazione di truppe di stanza nei pressi del fiume Reno. Appresa la notizia della ribellione del confinante Vindice, Rufo mosse contro le forze ribelli, circa ventimila uomini male armati e peggio addestrati.
Ai primi di maggio, Rufo, nella piana di Vesontio, ebbe ragione delle truppe raccogliticce comandate da Vindice, il quale, sconfitto e umiliato, si tolse la vita.
Solo Galba si frapponeva al completo ristabilimento dell’ordine imperiale. E Galba cercò di irretire Virginio Rufo in ogni modo, prima di ritirarsi con la sua legione in luoghi più sicuri.
Le truppe fedeli a Nerone e i loro comandanti, a questo punto, rimasero nella vana attesa di un gesto da parte dell’imperatore.
Più volte Lisicrate lo aveva consigliato di mettersi alla guida di una legione e marciare verso Galba. E altrettante volte Nerone gli aveva risposto che ormai la sua patria sarebbe stata l’Egitto. L’apatia che sembrava contraddistinguere ogni gesto dell’uomo più potente del mondo forse derivava soltanto da una scelta deliberata.
Si dice che Nerone si aggirasse per gli spazi sconfinati della Domus Aurea, componendo i versi che avrebbe declamato nel momento in cui si fosse trovato dinanzi le truppe ribelli.
E fu per quella sorta di inversione di tendenza nei costumi marziali dell’Urbe, più che per ogni altra cosa, che Nerone si ritrovò solo, abbandonato da Senato, cavalieri e militari. Anche il perfido Tigellino, vista la mala parata, preferì dileguarsi, lasciando una situazione tanto delicata nelle sole mani dell’altro prefetto pretorio, Nifídio Sabino. Quest’ultimo, personaggio spregevole e ambiguo, riuscì a convincere l’imperatore che, a quel punto, l’intero esercito era contro di lui.
Nella notte del nono giorno di giugno, l’imperatore si svegliò in un palazzo deserto e saccheggiato: i pretoriani che avevano il compito di preservare la vita dell’imperatore avevano abbandonato le postazioni, portandosi via tutto quello che potevano. Nerone corse come un pazzo tra le stanze deserte, poi decise che era tempo di attuare il piano che lui e Lisicrate avevano predisposto da tempo.
Venezia, 1337
Il primo editto che mirava a reprimere gli eccessi dei veneziani nel corso del carnevale fu emanato dal doge il 2 maggio del 1268. Ne sarebbero seguiti molti e molti altri, tutti diretti a porre un freno al libertinaggio a cui uomini e donne, resi irriconoscibili dalle maschere, si abbandonavano in ogni dove, inclusi luoghi sacri come conventi e monasteri.
Lorenzo di Valnure seguiva da presso uno degli uomini messigli a disposizione dal cugino, che, vestito da frate francescano, procedeva a passo spedito tra le calli di Venezia, invase dalla gente in maschera.
Anche Lorenzo, ovvero il Muqatil, indossava un saio liso e consunto e teneva il capo chino. Chi li avesse notati non avrebbe potuto distinguere se si trattasse di veri e propri frati o di bontemponi mascherati molto compresi nella loro parte. Poco importava, in una città in festa, chi fossero davvero quei due.
Diletta era stremata, i seni le dolevano per l’accumulo di latte che non avrebbe ormai nutrito nessuno: una settimana prima aveva dato alla luce una bambina. L’arcigna superiora e le altre due suore che avevano assistito al parto non le avevano concesso nemmeno il tempo di stringere sua figlia al petto. Come in un sogno, Diletta aveva visto quel fagottino passare di mano in mano, sino a che la superiora non aveva varcato la porta.
Facendosi forza, una volta rimasta sola nella cella, Diletta si era alzata e aveva socchiuso la porta. Aveva quindi potuto scorgere l’orientale a servizio di suo padre ricevere dalla suora la neonata. Poi la testa aveva preso a girarle per la debolezza e la giovane si era accasciata a terra.
«Adesso che hai espiato una parte del tuo peccato, dovrai pregare a lungo, Diletta», le aveva detto la madre superiora il giorno dopo il parto, «affinché la luce di Nostro Signore scenda su di te e ti illumini. Allora potrai ricevere í voti.»
«Madre, vi prego, ditemi dove avete portato mia figlia», chiese la giovane disperata.
«Non è dato modo a me né a nessuna di noi sapere dove sia stata condotta la bambina. Ma di sicuro si trova in mani pie e devote. Quel fatto deve essere cancellato dalla tua mente. Non voglio più sentirne parlare.»
Rimasta sola, Diletta si sdraiò sul letto e pianse.
E così aveva continuato, quasi ininterrottamente, nel corso di quella settimana: stremata dalle fatiche del parto e prostrata dalla separazione.
«Siamo due frati che provengono da Piacenza. Chiediamo ospitalità per questa notte, sorella», aveva detto l’uomo che accompagnava Lorenzo di Valnure non appena lo spioncino nel robusto portone del convento venne aperto.
«Aspettate, fratelli. Devo chiedere istruzioni alla superiora», aveva risposto la monaca, allontanandosi.
Nella calle un gruppo di persone mascherate e ubriache cantava a squarciagola alcuni versi da osteria.
«Che cosa volete, fratelli?» aveva chiesto poco dopo una voce femminile dal timbro autoritario.
«Il convento francescano non ha posti per questa notte: molte delle persone affluite in città per il carnevale hanno trovato alloggio nei conventi. I nostri confratelli ci hanno suggerito di rivolgerci a voi, reverenda madre.»
«Conoscete la regola, fratelli. Qui è consentito l’ingresso solamente al vescovo e al nostro confessore.»
«… oppure», suggerì l’uomo vestito da frate, «in casi di necessità… E vi assicuro, madre, che di necessità si tratta. Il mio compagno e io siamo stanchi e se dovessimo dormire all’aperto, col freddo di questa notte, non credo riusciremmo a sopravvivere. Ve ne prego, domattina all’alba riprenderemo il nostro cammino.»
«Va bene, sia fatta la volontà di Dio… Vi sarà assegnata una cella fuori dall’estensione. Non potrete uscire sino a domattina, quando vi congederemo.»
I suoni della città in festa, le voci allegre, i canti stonati giungevano alle orecchie di Diletta attraverso i muri dell’antico convento, e non facevano che acuire il suo dolore. Nella solitudine della sua cella, si disse per la millesima volta che non c’era più nulla per cui valesse la pena di vivere.
Alcuni giorni prima era riuscita, con una scusa, a farsi dare una lunga corda dalla magazziniera del convento. Un mesto sorriso accompagnava il movimento delle mani che componevano il nodo scorsoio. Ripensava a quando, nelle lunghe ore di navigazione, il Muqatil trascorreva il tempo a insegnarle l’arte marinara. E adesso il suo uomo era morto e la sua piccola le era stata tolta per sempre.
La trave si trovava a una discreta altezza, sopra la sua testa.
Al secondo lancio la corda oltrepassò la trave, ricadendo dalla parte opposta. Diletta collocò lo sgabello proprio sotto il nodo scorsoio, vi salì sopra e senza alcuna esitazione inserì la testa nel cappio.
Floriano, il più anziano dei tre uomini che il conte di Valnure aveva messo a disposizione del cugino Lorenzo, se non fosse stato al servizio del padre del Muqatil fin dalla nascita, avrebbe probabilmente seguito il guerriero saraceno nelle sue scorrerie marinare. Nonostante i sessant’anni, Floriano era dotato di una forza e di un’agilità invidiabili. Aveva invece passato tutta la vita nel castello di Valnure, allontanandosene per soli tre anni nel corso dei quali aveva studiato in un seminario. Tale esperienza gli permetteva ora di recitare con discreta verosimiglianza la parte del fraticello.
Il piano era stato elaborato in ogni particolare, sin dal momento in cui il conte Giacomo di Valnure era riuscito, attraverso la sua fitta rete di amicizie, a conoscere il luogo in cui veniva custodita Diletta. Come in ogni piano, però, il buon esito era affidato alla sorte e alla capacità dei protagonisti di reagire all’imprevisto.
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