Certo non potevano immaginare che qualcuno li stava tenendo sotto stretto controllo.
Grégoire Funet accostò il binocolo agli occhiali e osservò le manovre a bordo del catamarano. Distinse perfettamente il tubo flessibile di una Sorbona adagiato sul ponte. Vide Grandi e Vittard indossare le mute e calarsi per quella che doveva essere un’immersione di perlustrazione.
Nella sala del nodo di controllo aereo di Tel Aviv, il più importante in Israele, le voci degli uomini, seduti dinanzi allo schermo radar, producevano un brusio sommesso. Ognuno di loro era dotato di un piccolo microfono e di una cuffia ultraleggera. Attraverso questi semplici strumenti comunicavano agli equipaggi dei velivoli le modalità di volo senza che le rotte interferissero tra loro.
A prima vista, quegli uomini e quelle donne potevano sembrare degli attempati frequentatori di una sala di videogiochi, con gli occhi incollati ai monitor. Nelle loro mani era invece la vita di chiunque sorvolasse in quel momento lo spazio aereo di loro competenza.
La luce al neon baluginò per una frazione di secondo, poi si spense del tutto, e con lei qualsiasi altra apparecchiatura elettronica.
Il capoturno raccomandò la calma ai suoi: in caso di black-out i generatori d’emergenza sarebbero entrati immediatamente in azione. Trascorsero alcuni interminabili minuti, ma nessuna apparecchiatura elettrica ed elettronica sembrava voler uscire da quello stato di morte apparente. Anche l’impianto a batterie dell’illuminazione d’emergenza non voleva saperne di entrare in funzione.
Il capoturno sollevò il telefono per lanciare l’allarme: l’apparecchio era muto.
In cielo, in quello stesso istante, c’erano diciassette voli sotto il loro diretto controllo, e tra questi un aereo governativo che stava trasportando il primo ministro dello Stato israeliano. Senza la guida del centro di controllo, tutte le persone e gli aeromobili che si trovavano in aria avrebbero corso notevoli rischi di collisione.
Si diceva che l’aeronautica americana avesse sperimentato per la prima volta quel tipo di arma nel corso dei bombardamenti in Serbia. Il fatto è che l’uso di quella che veniva chiamata e-bomb , o bomba elettromagnetica, era difficilmente riconoscibile a posteriori. Gli effetti dell’ordigno non lasciavano dietro di sé rovine o popolazioni decimate. Soltanto l’arresto, spesso irreversibile, di ogni strumento elettrico o elettronico, e gli inspiegabili incidenti che da tale arresto potevano derivare.
Il comandante del Boeing 747 dell’El Al in viaggio da Roma all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv si era scrupolosamente attenuto alle istruzioni impartitegli dal centro di controllo. Adesso doveva virare a destra di diciannove gradi e iniziare la discesa verso la pista numero tre.
«El Al 252 a centro controllo. El Al 252 a centro controllo, rispondete, passo…» Il comandante parlava nel microfono, nella vana attesa di una risposta.
«El Al 252 a centro controllo. Rispondete, prego. Abbiamo iniziato la nostra discesa verso la pista numero tre dell’aeroporto internazionale Ben Gurion. Ci serve una guida per scendere a terra. El Al 252 a centro controllo, rispondete, passo!»
Il piccolo Falcon sbucò da un banco di nubi in rotta di collisione a poco più di mille metri di distanza dal grande velivolo di linea. A novecento chilometri l’ora, si percorre un chilometro in soli quattro secondi, e questo era il tempo concesso ai due piloti per evitare lo scontro.
Pochi erano gli esperti che amavano parlare di un’arma tanto micidiale quanto semplice da realizzare. L’ e-bomb era praticamente un compressore di flusso magnetico. Era sufficiente un tubo riempito di esplosivo con un detonatore alla sua estremità. Il tubo doveva quindi essere inserito in un cilindro spiralato — una bobina — dotato di un’antenna. La bobina veniva poi attivata facendovi passare corrente elettrica, per generare un campo magnetico. Al momento dell’attivazione del detonatore, la carica nel tubo metallico veniva fatta brillare e, un istante prima che l’onda d’urto interna cominciasse a distruggere l’ordigno, lo scoppio deformava il tubo metallico interno che, entrato in contatto con la bobina, generava un corto circuito. Il conseguente campo magnetico sarebbe avanzato, aumentando proporzionalmente di intensità, con l’avanzare del fronte dell’esplosione. Prima della definitiva distruzione dell’ordigno, l’enorme energia accumulata si sarebbe riversata nell’antenna esterna, irradiando energia elettromagnetica su ogni macchinario circostante. L’intero processo aveva una durata totale di un decimo di millisecondo, ma poteva emettere potenze superiori al terawatt.
Breil si aggrappò saldamente ai braccioli della poltrona. Quando il Falcon transitò a meno di trenta metri dalla pancia del Boeing, una violenta turbolenza lo fece impennare verso l’alto. Poi il piccolo jet, preda delle vorticose correnti di scia generate dal Jumbo, roteò quasi di centottanta gradi, entrando in stallo.
Gli allarmi nella cabina di pilotaggio presero a suonare e una voce metallica che ripeteva ossessivamente la frase: « Nose up! » riempì la carlinga.
I due piloti erano dei veterani dell’aviazione militare israeliana. Il Falcon compì alcune piroette su se stesso. Le mani del comandante si serrarono sulla cloche, mentre quelle del secondo spinsero a tutta forza le manette. La terra era ormai vicina, quando l’aereo riacquistò portanza e manovrabilità.
«Qui postazione radar militare di Jaffa», gracchiò la radio. «Crediamo si sia verificato un grave black-out presso i nostri amici ‘civili’. A tutti gli aerei in volo, a tutti gli aerei in volo: niente paura, ragazzi, vi riportiamo a casa noi.»
«Grazie, Jaffa, ne avevamo proprio bisogno. Qui il comandante del volo El Al 252. Appena a terra voglio offrire da bere al pilota di un piccolo jet privato: soltanto la sua prontezza di riflessi è riuscita a evitare una tragedia.»
Certo il comandante non poteva immaginare che a bordo del Falcon si trovasse la massima autorità governativa di Israele.
Breil si rilassò non appena l’aereo riassunse l’assetto di volo. Mancavano ancora cinque minuti all’atterraggio. Le mani del piccolo uomo corsero ancora al computer, dove trovò un nuovo messaggio nella casella di posta elettronica proveniente da un irrintracciabile utente giapponese: ‹CI AUGURIAMO CHE IL TRATTAMENTO A BORDO SIA STATO DI SUO GRADIMENTO. LE RACCOMANDIAMO DI NON DIMENTICARE I BAGAGLI A MANO E GLI OGGETTI PERSONALI. AVRÀ PRESTO MODO DI PENTIRSI DELLA SUA IRRUENZA, DOTTOR BREIL›.
Roma imperiale, anno di Roma 821 (68 d.C.)
«Guardati da lui, Nerone!» disse Lisicrate.
«Perché hai sempre nutrito avversione nei confronti di Simon Mago, Lisicrate?» chiese l’imperatore, sinceramente stupito.
«Conosco Simone da molto tempo e non mi fido di lui. Sono certo che sia stato proprio il Mago a indicare a tua madre dove Giulia Litia e io ci nascondevamo: poco dopo averlo incontrato siamo stati raggiunti da un drappello di guardie a cavallo. Egli sostiene di essere il Messia, di agire per diretta volontà di Dio, ma in questa stanza si inchina reverente al divino Cesare. Ti induce a perseguitare i cristiani come autori del grande incendio solo per togliere di mezzo i vertici di una setta a lui avversa. Buona parte delle sue magie sono abili illusioni: ha addirittura indotto i popolani a credere che un’antica statua nell’isola Tiberina sia attribuita alla sua divina figura. Dinanzi a te ha mai fatto prodigi? Miracolose guarigioni? Guardati da lui, mio imperatore.»
«Hai ragione, Lisicrate, è tempo che Simone dimostri tutta la sua abilità con la magia… Altrimenti diventerà mio il simbolo del potere che reca al dito. Tu stesso mi hai detto che quell’anello potrebbe essere appartenuto a re Salomone e può conferire poteri enormi.»
Читать дальше