Quasi ogni membro dell’equipaggio si sporse, attendendo con i dardi incoccati nelle balestre che il saraceno riemergesse, ma invano.
L’acqua fredda risvegliò il Muqatil dallo stato di torpore che precede la morte. Le sue gambe si mossero per spingere il corpo verso il fondale. Il condottiero sapeva che, se fosse riemerso, i dardi dei veneziani non gli avrebbero concesso scampo. Il petto sembrava volesse scoppiargli, l’aria stava per finire.
Le orecchie gli dolevano, gli occhi facevano fatica a rimanere aperti. Pochi istanti e sarebbe sopravvenuta l’incoscienza a mitigare il dolore della morte. Gli unici pensieri del condottiero furono rivolti a Diletta e a quel manipolo di uomini che erano morti da valorosi. Le forze stavano per mancargli. Invano, con un ultimo sforzo, il Muqatil tentò di liberare le mani dai legacci.
Beffarda morte per un uomo che al mare aveva dedicato la vita.
All’improvviso, qualche cosa di molto voluminoso sembrò prendere forma nelle profondità: forse si trattava soltanto di una visione dovuta al sopraggiungere dell’asfissia.
A poca distanza da lui, nell’acqua torbida, pareva si agitasse una vela gonfia di vento. Il Muqatil sforzò la vista per quanto poteva: uno dei voluminosi pezzi di tela dei sacchi in cui erano stati rinchiusi i cadaveri dei suoi si trovava a pochi passi da lui. Una grande bolla d’aria, rimasta imprigionata nella tela nel momento in cui i veneziani avevano gettato in acqua il macabro fardello, sembrava voler fuggire verso la superficie e ne deformava la parte alta, rendendola simile a una sfera di grandi dimensioni. Gli oli e le paraffine con cui era stata cosparsa la tela del dromone avevano reso impermeabile la stoffa e adesso quella bolla d’aria rappresentava l’unica possibilità di sopravvivenza per il guerriero saraceno.
Il Muqatil si portò più vicino a quella bara improvvisata: individuò un’apertura in un lato del sudario. Si fece strada spostando con le spalle e con le gambe i cadaveri dei suoi soldati. Finalmente la testa del guerriero emerse all’interno della bolla d’aria. Il primo respiro del Muqatil fu simile a una specie di rantolo, poi l’affanno si quietò. Quattro corpi senza vita giacevano sotto di lui; uno di questi ancora recava un pugnale conficcato tra le scapole.
Utilizzando il pugnale, il Muqatil recise i legacci, quindi si riempì i polmoni d’aria quanto più poteva e nuovamente si avventurò sott’acqua, nuotando alla massima velocità nella direzione opposta a quella della sagoma nera della carena della galea. Alla fine, stremato, giunse nei pressi della costa e riemerse nascosto da uno scoglio affiorante. La nave del suo nemico si stava allontanando. La voce di Humarawa gli giunse comunque nitida, mentre pronunciava in un incerto veneziano: «Nessuno riuscirebbe a sopravvivere per così tanto tempo. Certamente il Muqatil è morto annegato: aveva entrambe le mani legate dietro la schiena quando si è gettato in acqua. Non perdete altro tempo, uomini, e fatevi insegnare da Wu i segreti dei pescatori di perle: voglio recuperare il tesoro di Tabarqa imbarcato sul dromone».
Gennaio 2002
Il furgoncino pick-up transitò davanti alla sede della Water Enterprise proprio mentre la limousine con a bordo Yasuo Maru e Taka si avviava. L’uomo, sdraiato all’interno del cassone, sollevò la coperta che lo proteggeva da sguardi indiscreti. Con mani esperte armò il tubo di lancio a spalla del missile Stinger Manpads e agganciò il bersaglio con il sistema di puntamento a raggi infrarossi chiamato fire and forget , spara e dimentica. Un forte contraccolpo alla spalla gli segnalò che il missile aveva spiccato il suo volo supersonico, diretto verso l’auto nella quale viaggiavano il Signore delle Acque e il suo segretario. Quindi l’uomo si nascose nuovamente sotto la coperta, mentre il furgoncino si allontanava facendo stridere le gomme.
L’autista a bordo della limousine di Yasuo Maru osservò la spia rossa intermittente sul cruscotto: faceva parte di un sofisticato apparato difensivo, simile a quello degli aerei e dei carri armati, in grado di rilevare se l’auto era stata agganciata da un sistema di puntamento. Il tutto avvenne in poche frazioni di secondo. L’uomo alla guida della vettura di Maru ebbe appena il tempo di verificare l’attivazione del sistema di difesa antimissile che lo spostamento d’aria investì ogni cosa nel raggio di alcuni metri. Lo Stinger Manpads era stato neutralizzato un attimo prima che raggiungesse il bersaglio ed era stato fatto esplodere dal complicato apparato difensivo a poca distanza dalla carrozzeria nera lucente della limousine.
Adesso quello che rimaneva della vettura, un vero e proprio inespugnabile gioiello tecnologico a causa dell’innumerevole serie di «optional» richiesti dal cliente a tutela della sua incolumità, giaceva fumante con le ruote all’aria sul marciapiede di fronte alla sede della multinazionale.
Vittard mostrò a Grandi il manicotto di collegamento. «Trovo piuttosto interessante questo modello di Sorbona: è sufficiente collegare l’attacco alla presa a mare del raffreddamento del motore e, utilizzando il propulsore del C’est Dommage , si riesce a risucchiare un metro cubo di sabbia al minuto.»
Grandi osservò il lungo tubo e la bocca d’acciaio che avrebbe inghiottito la sabbia nella piana sottomarina. Poi soffermò la sua attenzione sui filtri che avrebbero impedito ai micidiali granelli di entrare in circolo nell’impianto di raffreddamento.
«Già», ribatté Grandi, «ma il problema resta sempre l’esatta individuazione del relitto nella pianura sott’acqua: se continuiamo ad andare alla cieca, altro che un metro cubo di sabbia al minuto! Dovremmo scavarne tonnellate!»
«Niente paura, l’attrezzatura fornitaci dalla nostra amica Terracini è quanto di più all’avanguardia si possa trovare. Sono certo che non torneremo a casa a mani vuote.»
«Eccoli!» disse il comandante indicando un punto intermittente su uno schermo radar dello Shimakaze. «Si trovano ancora a ottanta miglia dall’isola e dirigono verso Favignana.»
Funet si sistemò gli occhiali sul naso, con aria compiaciuta. «Credo sia giunto il momento di avvertire il signor Maru.»
Yasuo Maru aprì con fatica lo sportello blindato dell’auto ribaltata. Uscì e si massaggiò le orecchie che ancora gli dolevano. Era miracolosamente illeso. Sorte peggiore era toccata all’autista: il contraccolpo gli aveva schiacciato la testa sul parabrezza, uccidendolo all’istante. Taka mostrava una lunga ferita sanguinante sulla fronte.
L’efficiente servizio di sicurezza della Water Enterprise aveva già circoscritto la zona, tenendo lontani i curiosi e buona parte dei dipendenti che, allarmati, si erano precipitati in strada subito dopo l’esplosione.
Il Signore delle Acque fu circondato dalle guardie del corpo e scortato all’interno della sede della società. Aveva un’espressione terribile dipinta in volto.
«Chiunque sia il colpevole pagherà per questo», mormorò, mentre superava la grande porta a vetri attraverso la quale si accedeva all’atrio del grattacielo.
In quello stesso istante Bruno Milano, appostato all’interno di un anonimo furgone, pigiò sul tasto rosso, interrompendo la ripresa della telecamera puntata sul luogo dell’attentato.
Roma imperiale, anno di Roma 821 (68 d.C.)
Non era possibile, per Lisicrate, riuscire a nascondere la sua meraviglia di fronte agli ambienti della Domus di Nerone: nulla di quello che aveva visto sino ad allora era paragonabile a ciò che era stato edificato nel centro dell’Urbe.
La reggia di Nerone interessava un’area di circa ottanta ettari compresa tra i colli Oppio, Palatino, Esquilino e Celio. Nella valle che si formava tra le quattro colline si trovava quello che Nerone continuava a definire uno stagno, ma che in molti già chiamavano il Mare dell’imperatore. Ovunque era un profondersi di ori, stucchi, conchiglie preziose, affreschi. La statua aurea dell’imperatore alta centoventi piedi, raffigurante Nerone nelle vesti del dio Sole, poteva agevolmente trovare posto all’interno del vestibolo.
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