«Quante cose sono cambiate mentre ero lontano», disse Lisicrate scuotendo il capo.
«Aspetta, non ho ancora finito. La data fissata per una congiura ai danni dell’imperatore era quella dei giochi in onore di Cerere, alla fine dello scorso mese. Nerone doveva essere pugnalato da un sicario, mentre si trovava nella sua tribuna all’interno del Circo Massimo affollato. Un piano quasi perfetto per un assassinio plateale che, per una serie di coincidenze, è venuto alla luce. Si mormora che una congiurata, una certa Epicari, abbia cercato di convincere il proprio spasimante a prendere parte all’omicidio. Questi, un tal Volusio Proculo, uomo fedele a Nerone, ha avvertito l’imperatore del pericolo imminente. Ma il confidente non conosceva né i nomi dei congiurati, né í loro tempi. Il giorno prima della data prefissata per l’assassinio, un liberto di nome Milico ha chiesto udienza a Nerone, rivelando di aver sentito parlare della congiura il senatore Scevinio, suo padrone, e un cavaliere di nome Antonio Natale. I due sono stati arrestati e torturati. I primi nomi che sono stati fatti sono tali da far tremare tutta Roma: Pisone, Seneca, Rufo, Laterano, Lucano e molti, molti altri. Diciannove persone sono state giustiziate in questi ultimi giorni. Alcuni si sono dati la morte prima che le guardie bussassero alla loro porta. Tredici patrizi sono stati esiliati. Seneca si è ucciso nella sua villa, una volta appreso che Nerone gli concedeva l’estrema scelta tra il togliersi la vita o venire giustiziato.»
Lisicrate era incredulo. Persino Seneca si era ribellato alla creatura che lui stesso aveva contribuito a forgiare.
Un servo si avvicinò alla coppia, intenta a parlare fitto in un angolo della casa.
«L’imperatore mi ha chiesto di condurti da lui, Lisicrate.»
Una donna formosa si alzò dal triclinio dove era adagiato Nerone.
«Statilia Messalina mi consola», disse Nerone non appena la donna fu uscita dalla stanza, «adesso che mia moglie Poppea sta per darmi un figlio. Pensa, Lisicrate… un figlio… Finalmente!»
«Ho udito notizie preoccupanti, mio imperatore, al mio rientro.»
«Nulla di troppo serio: una ciurma di traditori male organizzati ha provato ad attentare alla mia vita. Comunque hai ragione, mio buon amico. Malgrado l’amore per i miei sudditi, serpeggiano tensioni e malcontento, sostenuti da ignobili dissacratori della mia persona. Non è tempo per apparire, Lisicrate… non è tempo per apparire. Ho disposto che la mia nuova imbarcazione venga tenuta nascosta in un porto segreto: navigare su una nave d’oro servirebbe soltanto ad alimentare il fuoco delle voci malevole. Ho altresì disposto che tre ottimi attori, a me molto somiglianti, mi sostituiscano nel corso di cerimonie e in circostanze particolarmente pericolose. Ma dimmi, raccontami l’esito della tua spedizione, Lisicrate.»
In sintesi il greco raccontò delle estenuanti ricerche, poi si soffermò a descrivere l’enormità del tesoro scoperto. Il tintinnio dell’oro fu capace di riaccendere l’entusiasmo dell’imperatore.
«Presto… Dobbiamo organizzare una spedizione… Trasportare il tesoro a Roma… anzi… anzi… No, dobbiamo tenere ogni cosa segreta. Quell’oro potrebbe essermi utile qualora le nubi che minacciano il mio impero si abbattessero sulla mia persona. Nel caso dovessi fuggire, avrò proprio bisogno di quel tesoro che potrà garantirmi una vita agiata. La tua scoperta sembra giungere al momento opportuno. Farò uccidere quel pazzo ex legionario scopritore del tesoro… Come si chiama?»
«Si chiama Cesellio Basso e credo sia inutile ucciderlo, a meno che tu non voglia alimentare sospetti intorno alle affermazioni di un sedicente scopritore di tesori completamente pazzo. Lascialo invece libero, e fai sì che si inneggi alla tua clemenza per aver graziato un folle che, avendo sognato il nascondiglio del tesoro, era convinto che ciò corrispondesse a realtà. Si è fatto un gran parlare, qui a Roma, sulla spedizione allestita per scoprire l’oro di Didone, e tutti si aspettano notizie in merito. In questa maniera, graziando il povero Cesellio, taciteresti le aspettative dei curiosi e la tua proverbiale magnanimità avrebbe da guadagnarci. Convengo con te, Nerone, che si debba lasciare il tesoro dove si trova, ma nel contempo ti suggerisco anche di trovare un luogo che possa accoglierti, se a Roma le cose si mettessero male.»
«Ho pensato anche a questo. Ma dove potrei recarmi, esule, se Roma è ovunque?»
«La tua cultura e il tuo sapere non ti suggeriscono nulla? Hai pensato a terre sotto l’egida di Roma, ma dotate di un’autonomia politica ed economica pressoché totale? E se Roma ha garantito a questi territori l’autonomia, lo ha fatto perché sarebbe stato molto difficile assoggettare il loro sapere, la loro cultura e le loro usanze.»
«Di quali terre stai parlando, Lisicrate?»
«L’Egitto… la Grecia, mio imperatore…»
Mar Mediterraneo, 1336
Il moto lento del dromone alla fonda sembrava voler cullare, nella notte scura e senza luna, il meritato sonno dei guerrieri. Non c’era motivo di temere altro, adesso che anche il traditore ’Abd al-Hisàm era stato ucciso.
Il Muqatil osservò il profilo della cala: nel buio, gli sfumati contorni delle rocce lasciavano immaginare le alture dell’isola di Favignana.
Diletta gli strinse la mano. Sentì che la tensione si era ormai allentata. Sorrise al suo uomo cercando di trasmettergli con quel breve contatto la profondità dei sentimenti che provava per lui.
«Una vita… Abbiamo un’intera vita davanti. Nella nostra città. Appena torneremo a Tabarqa voglio sposarti e avere un figlio da te. Ti amo», sussurrò il Muqatil guardandola negli occhi illuminati dalle fioche lanterne sul ponte.
«Per quanto riguarda la prima parte della richiesta, mio cavaliere, acconsento a concedervi la mia mano», rispose Diletta con un sorriso. «Quanto alla seconda, non credo dobbiate arrivare sino a Tabarqa per apprendere che…»
«Vuoi dire… Vuoi dire che tu… che noi…»
La galea piombò sul dromone in quell’istante, sbucando come una meteora impazzita dal nero della notte.
Il Muqatil trattenne la sua compagna, mentre il rostro nemico si infilava nella carena della sua nave, a poca distanza da lui.
«All’armi! Siamo attaccati!» gridò il Muqatil sguainando la spada.
Alcune figure si agitavano dall’alto di una specie di castello sulla prora della galea. Il Muqatil fece appena in tempo a ritrarsi verso poppa che una pioggia incandescente si riversò sul ponte dell’imbarcazione: degli enormi recipienti in metallo vomitavano grandi quantità di quell’inferno in un canale di ferro che si riversava sul dromone. In un attimo il fuoco greco si impadronì del ponte, avanzando come un fiume di lava.
Nello stesso momento, dalla fiancata della galea gli assalitori arrembarono la nave dell’emiro.
I saraceni, destati di soprassalto, cercavano di fare il possibile per respingere l’attacco. Ma la sorpresa e le fiamme stavano facendo pendere l’ago della bilancia a favore degli aggressori.
Il Muqatil scorse, tra le vampe del fuoco che stavano divorando il dromone, una figura che si aggirava agile, brandendo una spada ricurva. Il volto di quello che sembrava il comandante dei nemici era celato da una maschera di legno dall’aspetto terrificante. Il Muqatil sapeva che, nel lontano Oriente, molti guerrieri indossavano quel tipo di maschere per terrorizzare il nemico. Non gli ci volle molto per collegare il capo degli assalitori con l’orientale che aveva visto sulla tolda dell’imbarcazione nemica, dopo averla speronata. Risoluto, il Muqatil si fece strada per raggiungere l’uomo che riteneva responsabile dell’eccidio nel suo villaggio.
Ormai si trovava a qualche metro dal suo persecutore: non lo aveva mai perso d’occhio, osservando le sue tecniche di battaglia e il suo modo singolare di affondare i colpi. Ora si sarebbe trovato dinanzi a lui, pronto a fronteggiarlo in un duello all’ultimo sangue. Il Muqatil raccolse le forze e inspirò profondamente; mancavano pochi passi perché raggiungesse l’avversario, quando l’espressione del suo volto mutò e l’ira si trasformò in terrore.
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