Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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«Potrebbe anche esserci qualche altra persona negli ambienti a me ostili a trarre vantaggio dall’aver trovato un colpevole. Pensa che si dice sia stato io stesso a ordinare di appiccare il fuoco alla mia città. Comunque, non ti ho chiamato qui per questo, Lisicrate.» L’imperatore batté le mani due volte, e uno schiavo introdusse alla loro presenza un uomo dall’aspetto dimesso e dallo sguardo reso febbrile da una vena di follia.

«Questo è Cesellio Basso, Lisicrate. Un eroico legionario romano che ha atteso giorni e giorni per poter conferire con il suo imperatore. Credo che la storia che ti andrà a raccontare sia molto interessante.» Così dicendo, Nerone esortò Cesellio a prendere la parola.

PARTE QUARTA

Diffugiunt cadis cum faece siccatis amici.

Svaniscono gli amici, quando le botti restano secche sino alla feccia.

ORAZIO

10

Maschera da samurai in legno di gelso Mar Mediterraneo 1336 Se la nave di - фото 4
Maschera da samurai in legno di gelso

Mar Mediterraneo, 1336

Se la nave di ’Abd al-Hisàm fosse riuscita a raggiungere le coste siciliane, quasi certamente il traditore sarebbe stato salvo.

L’inseguimento era durato tre giorni e due notti, da quando il dromone del Muqatil aveva incrociato l’imbarcazione del fuggiasco.

Diletta aveva insistito per partecipare a quella missione: in fondo, aveva detto, sarebbe stata ben più sicura sulla nave del suo uomo che nella città di Tabarqa, ove ci si poteva aspettare da un momento all’altro un contrattacco dei cristiani o un attentato da parte dei pochi fedeli di ’Abd al-Hisàm.

«Ancora poche miglia e sarà in salvo. Forza, uomini. Dobbiamo raggiungere il traditore», disse il Muqatil, mentre il dromone sembrava volare sull’acqua.

Il mare è immenso e sconfinato, ma le notizie viaggiano sulla sua superficie con maggiore velocità che sulla terraferma: i comandanti di due navi amiche, nel momento in cui le loro imbarcazioni si incrociano, si scambiano le notizie che, assieme al carico, stanno trasportando verso le rispettive destinazioni.

Così Hito Humarawa aveva appreso della flotta armata dal Muqatil per riconquistare Tabarqa.

Il samurai sapeva bene che con una città fortificata alle spalle, non più costretto a navigare senza meta, il pirata sarebbe diventato ancor più pericoloso. Per questo Humarawa si era augurato che la spedizione del suo nemico non fosse andata a buon fine o, perlomeno, che, per un qualsivoglia motivo, il Muqatil fosse stato costretto a riprendere il mare.

Il dromone compì una manovra improvvisa, come una fiera che ghermisce la preda. La nave di ’Abd al-Hisàm si pose al traverso, lasciando i tre quarti poppieri scoperti. La prora rostrata del dromone si conficcò tra i legni, quindi l’imbarcazione assalitrice affiancò quella dell’usurpatore. Nello stesso istante, un centinaio di uomini armati scavalcarono i parapetti, dilagando sul ponte, guidati dal legittimo emiro di Tabarqa.

’Abd al-Hisàm osservò con terrore i nemici a pochi metri da lui. Tra i volti contorti degli uomini impegnati in una battaglia all’ultimo sangue, scorse quello del cugino.

«Combattete, miei uomini! Questi traditori hanno occupato le vostre case e abusato delle vostre mogli. Non meritano di restare vivi!» incitava i suoi il Muqatil.

«Finalmente ho il piacere di guardarti ancora una volta negli occhi», sibilò il Muqatil quando riuscì a farsi strada a colpi di sciabola sino al giardinetto di prora, dove era arroccato il cugino.

’Abd al-Hisàm aveva la paura dipinta sul volto. Invano cercò aiuto tra i suoi fidi; ben presto si accorse che i pochi sopravvissuti avevano altro da fare che proteggere il loro comandante.

«Avanti, cugino mio, siamo arrivati alla resa dei conti.» Così dicendo, l’emiro aprì la guardia per provocare la reazione dell’avversario.

’Abd al-Hisàm menò un affondo, cercando di colpire il Muqatil al petto. L’altro si scansò di lato, caricando simultaneamente il fendente. La lama incise la corazza di pelle del traditore, lacerandone la carne. Era una ferita profonda, ma non mortale. Il colorito di ’Abd al-Hisàm divenne cereo, mentre con una mano cercava di tamponarsi la ferita. Il Muqatil caricò con un nuovo affondo e, tenendo la sciabola con entrambe le mani, roteò il corpo. La lama colpì la base del collo di ’Abd al-Hisàm con violenza. La testa reclinò in una posizione innaturale, mentre dal collo reciso il sangue sgorgava a fiotti.

Pochi istanti più tardi, gli uomini del Muqatil salutavano la vittoria con un unico urlo di gioia.

«Il traditore è morto, giustizia è fatta», disse il Muqatil ai suoi. «Questa nave è troppo malridotta per farne bottino. Trasbordiamo il tesoro di Tabarqa sulla nostra tolda. Ci ripareremo in una baia per questa notte e domattina riprenderemo il mare alla volta della nostra città.»

Al calar della sera il dromone, dopo che l’equipaggio aveva lavorato senza sosta per caricare il tesoro trafugato da ’Abd al-Hisàm, ormeggiò in una cala riparata dell’isola di Favignana.

Gennaio 2002

Ancora una volta un abile travestimento aveva reso Bruno Milano irriconoscibile: sembrava un anziano pensionato che si recava negli uffici della Water Enterprise per provvedere personalmente al pagamento delle bollette. L’ufficiale del Mossad vagò per un po’ nel palazzo, prima di trovare un posto dove avrebbe potuto nascondersi sino all’ora in cui si fossero svuotati gli uffici.

Era circa mezzanotte quando entrò in azione.

Uno dei suoi agenti aveva provveduto in precedenza a scattare alcune fotografie, cercando di inquadrare la medesima visuale delle telecamere del circuito interno. Camminando il più possibile accostato al muro, Milano raggiunse la telecamera posta nel corridoio antistante l’ascensore. Con agili mosse si sollevò fino a piazzare di fronte all’obiettivo la foto di quello stesso ambiente, quindi, sperando che nessuno si accorgesse del trucco, schiacciò il pulsante di chiamata. L’ascensore giunse alcuni istanti più tardi. Nessuno avrebbe notato movimenti sospetti: anche di notte, all’interno degli uffici della multinazionale, era attivo un turno di impiegati addetti a mantenere i contatti tra le varie sedi e le società affiliate, situate un po’ ovunque nel mondo.

Quando premette il pulsante del trentunesimo piano, un piccolo schermo digitale gli richiese l’inserimento della carta magnetica nell’apposita fessura: per raggiungere l’attico, occupato da Yasuo Maru e dai suoi fedelissimi, era necessario superare le severe procedure di riconoscimento.

Con mano ferma Milano inserì la tessera clonata nella fessura. Attese con trepidazione il responso. Trascorsero frazioni di secondo lunghe come una vita. Poi, sul display comparve la frase: BENVENUTO, TAKA SAMA, e l’ascensore iniziò a salire.

Derrick Erma scosse il capo con aria sconsolata: la morte di un’agente preparata e seria come Kuniko Sagashi era un fatto doloroso anche per il capo del Mossad, pur abituato a perdere i propri uomini impegnati in missioni rischiose.

E quella sulla quale stava indagando la giovane Kuniko era senza dubbio da considerarsi molto pericolosa. Tanto più che il suo diretto superiore, il capo del governo israeliano Oswald Breil, sembrava avesse molto a cuore quella questione e tutto ciò che riguardava Yasuo Maru.

Erma sollevò il telefono e compose un numero privato. La voce di Oswald Breil gli rispose dopo pochi squilli.

«Abbiamo perso il nostro contatto nell’operazione Sol Levante», riferì Erma senza perdersi in convenevoli.

«Incidente o qualcosa di peggio?» chiese Breil.

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