«Molto peggio, signor primo ministro, molto peggio.»
«Mi scriva quello che è successo, Erma. Lo leggerò appena avrò tempo.»
Oswald Breil ripose la cornetta e rimase per qualche istante in silenzio: la faccenda si andava facendo sempre più grave e Oswald era convinto che Sara e i suoi amici stessero correndo analoghi pericoli.
Sara Terracini non era riuscita a mantenere lo stretto riserbo al quale voleva attenersi sino alla fine della traduzione. A mano a mano che entrava in possesso di notizie importanti, riteneva fosse giusto comunicarle a Grandi e a Vittard.
Alcuni minuti prima aveva scritto, utilizzando il solito programma criptato: ‹MI MANCANO ORMAI POCHI PAPIRI, VI CONFERMO L’ESISTENZA DI UNA NAVE RIVESTITA D’ORO APPARTENUTA A NERONE. SE DOVETE CERCARE UN RELITTO, QUESTO DOVREBBE ESSERE LUNGO SESSANTADUE METRI E LARGO DLCIOTTO›.
Quasi in tempo reale, a Sara giunse la risposta dal computer del catamarano: ‹GRAZIE PER L’INFORMAZIONE, SARA, AL MOMENTO CI TROVIAMO ALLA FONDA ALL’ISOLA DI CAPRAIA. PER DOMANI È PREVISTA LA FINE DELLA BONACCIA. ENTRO TRE GIORNI DOVREMMO ARRIVARE SUL LUOGO DELLE OPERAZIONI. UN ABBRACCIO. HENRY VITTARD›.
Quel nome e le ultime parole furono sufficienti affinché la mente di Sara si perdesse per qualche istante in fantasie che certo non si confacevano a una inflessibile ricercatrice. Poi la donna si riscosse, sorrise e continuò, infaticabile, a tradurre le avventure di Lisicrate.
Bruno Milano aprì la piantina che Kuniko Sagashi gli aveva dato nel corso di uno degli ultimi incontri. Provò un senso di vuoto pensando che le mani della donna avevano tracciato quel preciso disegno soltanto pochi giorni prima, quando la bella agente era ancora in vita.
Il maggiore del Mossad sgattaiolò nei corridoi deserti, senza alcun rumore: sapeva bene che almeno una segretaria si trovava all’interno dello spazioso ufficio a poca distanza da lui.
Ancora una volta estrasse la tessera magnetica e la inserì nel lettore posto vicino allo stipite di una porta. Un clic metallico accompagnò il solito messaggio di benvenuto.
L’ufficio di Taka aveva un aspetto asettico: ogni cosa era disposta con ordine assoluto. La scrivania era sgombra, fatta eccezione per due pile di fogli, anch’essi perfettamente ordinati.
Con attenzione, Milano cominciò a scorrere le pagine, fino a che non si fermò nel riconoscere un bonifico bancario eseguito non a nome della società, bensì personalmente da Yasuo Maru. L’identità del beneficiario gli era ben nota, grazie alle scrupolose indagini che aveva svolto Kuniko: Genji Enshigoju, la fidata procacciatrice dei divertimenti segreti di Maru, aveva ricevuto la consistente somma di duecentomila dollari sul suo conto in Svizzera. Quasi certamente quello era il pagamento per il piacere del Signore delle Acque e per il silenzio della donna.
Nella mente di Milano riaffiorarono le immagini della registrazione notturna, vista assieme a Kuniko a casa della ragazza: il furgone della lavanderia, chiamato da Taka a ritirare un «pacco» di indumenti sporchi; Genji Enshigoju che entrava nella sede della Water Enterprise spingendo un grande carrello, travestita da addetta alla distribuzione della posta interna. La somma versata era indubbiamente eccessiva per qualsiasi servizio di recapito postale.
Milano accese il computer sulla scrivania di Taka. La prima schermata lo invitava a inserire la tessera magnetica di riconoscimento. Così fece il maggiore del Mossad e la macchina, dopo un breve messaggio di benvenuto, aprì le sue inviolabili porte. L’ufficiale del Mossad estrasse un piccolo masterizzatore da una tasca e lo collegò al computer: non aveva tempo di spulciare nella memoria della macchina. Avrebbe copiato il suo intero contenuto su alcuni CD-ROM da esaminare in seguito.
Terminata l’operazione, Milano ripercorse a ritroso il cammino. Salì in uno dei quattro ascensori privati che conducevano ai piani alti del palazzo: erano quelli utilizzati dai top manager e dallo stesso presidente, che ne faceva uso anche per raggiungere la sua abitazione, al piano superiore.
Milano compì le operazioni di riconoscimento, infine pigiò sull’ultimo bottone, quello corrispondente all’attico, la residenza di Yasuo Maru al trentaduesimo piano del grattacielo. L’ascensore si fermò dopo una breve corsa e la porta si schiuse su un ambiente assai lussuoso e ampio. L’ufficiale si mosse come il più esperto dei ladri, raggiunse la sala da lettura e si meravigliò nel constatare che la parete della libreria era sollevata e dava accesso a un portoncino in acciaio, simile a quello di un ascensore.
Milano stava ispezionando il pannello dove si trovava il codice a combinazione, quando un rumore lo mise in allarme: qualcuno aveva azionato il piccolo elevatore interno. Nel cercare un nascondiglio, Milano si domandò, trovandosi già all’ultimo piano del palazzo, dove poteva condurre quel piccolo ascensore: ricordava bene la pianta del piano sottostante ed era sicuro che in quella zona non fossero presenti trombe di elevatori o montacarichi.
Milano memorizzò i toni emessi dalla tastiera digitale, mentre Yasuo Maru li componeva il codice per richiudere la porta blindata dell’ascensore.
Le voci nella sala da lettura gli giunsero chiare. Con assoluta certezza riconobbe quella di Taka. Con ogni probabilità, la seconda era quella del Signore delle Acque.
«… e così anche Kuniko Sagashi è stata messa in grado di non infastidirci. Non mi è mai piaciuta quella ragazza», aveva detto Taka.
«… avevi ragione, Taka. Sei il più prezioso tra i miei collaboratori.»
Bruno Milano si sporse in avanti quel tanto che bastava per vedere Yasuo Maru ruotare un calamaio posto sulla sua scrivania. L’intera parete della libreria tornò nella sua posizione originaria, accompagnata dal ronzio del motore elettrico.
Roma imperiale, anno di Roma 818 (65 d.C.)
Un anno! Per un intero anno Lisicrate aveva seguito Cesellio Basso mentre, con gli occhi fuori della testa, nei pressi della città iberica di Cartagena, attraversava campi, misurava impervi sentieri, scalava rocce nel tentativo di ricordare, tra i fumi della sua mente offuscata dalla follia, dove aveva rinvenuto il tesoro. Ma senza alcun risultato.
Poi, all’improvviso, quando Lisicrate stava per abbandonare la missione, un lampo parve attraversare la mente di Cesellio.
Lo spettacolo che, il giorno seguente, Lisicrate poté ammirare fu in grado di lasciarlo senza fiato: il tesoro della leggendaria Didone era di valore incalcolabile e occupava un’intera grotta di grandi dimensioni. Quella enorme quantità di ori, argenti e pietre preziose sarebbe stata in grado di rimpinguare consistentemente le aride casse dell’impero.
Lisicrate non perse tempo: accompagnato dal folle scopritore, unico custode assieme a lui del ricco segreto, s’imbarcò per Roma e, appena giunto, chiese udienza a Nerone.
Non era mai successo in precedenza, ma al greco venne risposto che l’imperatore era molto impegnato e che lo avrebbe ricevuto non appena fosse stato libero.
Lisicrate prese ad aggirarsi tra gli ampi spazi della residenza imperiale, mentre una calda brezza di maggio trasportava gli odori dell’estate prossima a venire. Era da molto tempo che mancava da palazzo: la costruzione della nave imperiale, prima, e la ricerca del tesoro di Didone, poi, lo avevano tenuto lontano da Roma. Non si stupì quindi di incontrare poche facce conosciute lungo í corridoi, come sempre percorsi da una moltitudine di clientes , cortigiani e servitori.
Finalmente un sorriso si aprì sul suo volto, quando vide una figura femminile avanzare verso di lui.
Giulia Litia, ormai un’anziana donna di corte, si rivelò come sempre una fonte impagabile di informazioni.
«Molte cose sono cambiate, da quando tu sei partito, Lisicrate, e Nerone ha corso un grave pericolo», gli riferì Giulia, dopo essersi appartata con lui. «Le feroci persecuzioni di cui sono rimasti vittime gli ipotetici autori dell’incendio hanno sancito per sempre, da parte dell’imperatore, l’abbandono della linea moderata che lui stesso aveva perseguito sino a quel momento. Questo comportamento ha fatto esplodere il malcontento che covava nei patrizi romani sin dall’uccisione di Ottavia. Recidendo i suoi vincoli parentali con la gente Giulia, facendo assassinare la madre, e quelli con la gente Claudia, comandando l’omicidio della moglie, Nerone ha indebolito la sua discendenza augusta. Agli occhi dei pretendenti e nelle discussioni di chi gli era avverso, si è cominciato a parlare con aria di scherno di un ‘divino Domízio Enobarbo’. A nulla sono serviti í progetti faraonici per riedificare Roma. Anzi, la posizione dei delatori si è ancor più rafforzata. Si dice che Nerone abbia tratto vantaggio dall’incendio: ha commissionato ai due architetti Celere e Severo la costruzione di un palazzo imperiale senza precedenti, che occuperà l’intero spazio dei quartieri distrutti dal rogo.»
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