«Sono vecchio e stanco, Nerone», aveva detto Seneca dopo un istante di riflessione. «E quelle ricchezze a cui ti riferisci non mi interessano. Molte di queste sono frutto di donazioni che ho ricevuto dalla tua magnanima persona. Stavo pensando di ritirarmi per occuparmi solo del mio spirito e di lasciare che il mio patrimonio, così cospicuo come tu dici, venga amministrato da funzionari imperiali. I frutti di quello che posseggo verranno a te restituiti o devoluti al popolo.»
Nerone rimase un istante a pensare, poi disse: «Nessuno parlerebbe della tua modestia e della tua generosità, se tu mi rendessi quanto io ti ho donato. Tutti vedrebbero in me un avido e un crudele e in te un pavido. Sei sicuro della tua scelta di ritirarti?»
Nerone, senza troppa convinzione, cercò di persuadere il consigliere a restare al suo fianco, con una serie di frasi di circostanza, tese a valorizzare il lavoro che Seneca aveva svolto in quegli anni.
Il filosofo sembrava però irremovibile dalla sua decisione. La discussione volgeva al termine.
Nerone aprì le braccia. Seneca lo cinse con una punta di commozione. Rimasero così, stretti come due amici che si separano per sempre.
Quando Seneca abbandonò la stanza, Nerone chiamò uno dei servi: «Fate entrare Lisicrate», ordinò l’imperatore.
Lisicrate si aggirava nei saloni della residenza imperiale in attesa che Nerone gli concedesse udienza.
Seneca era uscito dalla stanza piuttosto preoccupato. Il greco lo aveva salutato amichevolmente.
«Adesso sei rimasto solo tu al suo fianco, Lisicrate», gli aveva detto Seneca, fermandosi a scambiare alcune parole con lui. «Tutti noi gli abbiamo dedicato buona parte della nostra vita, riversando in Nerone la nostra esperienza e il nostro affetto. Stagli vicino. Vedo nuvole scure addensarsi sull’immagine dell’imperatore e sulla sua mente.»
Quando Lisicrate entrò nella stanza, Nerone appariva di ottimo umore. Non riferì nulla di quanto era appena stato detto tra lui e Seneca, ma venne immediatamente al punto.
«La tua esperienza nel campo delle costruzioni navali è unica, Lisicrate. Io voglio una nave degna della mia persona, una nave imperiale. La nave più bella di ogni tempo.»
Tigellino si era presto fatto conoscere a corte come uomo di tradimenti e nefandezze, e la sua capacità di intessere trame e gettare discredito sulle persone divenne in breve tempo proverbiale.
La prima delle sue vittime illustri fu proprio Ottavia, la moglie dell’imperatore.
Le accuse di adulterio si andavano sommando a quelle di servi che, ascoltati dal Senato, testimoniavano di aver visto o udito la loro padrona in atteggiamenti compromettenti. Ma non era sufficiente la parola di uno schiavo per screditare la figlia di Claudio.
Così Nerone, dopo aver gettato il discredito sulla figura di Ottavia, chiese e ottenne il divorzio perché la donna non era stata in grado di regalargli un erede.
I romani parvero non gradire l’allontanamento dell’unica persona retta e onesta di quella famiglia: la sterilità non fu motivo sufficiente a evitare che a Roma scoppiassero tumulti.
E così, come sempre succedeva nei momenti difficili, Aniceto, l’assassino di Agrippina e comandante in capo della flotta, si assunse l’onere di una prova schiacciante, confessando un’improbabile relazione con Ottavia.
Dodici giorni dopo che Ottavia, condannata a morte per adulterio, era stata strangolata da un sicario, Nerone sposò Poppea. Aniceto non subì una punizione altrettanto dura, ma fu relegato in un esilio dorato in Sardegna.
Sia la nobiltà romana sia l’intero Senato non vedevano di buon occhio una plebea assurta al ruolo di Augusta, e le troppe analogie della nuova moglie di Nerone con Agrippina pesavano come un macigno sulla reputazione di Poppea.
Mar Mediterraneo, 1336
Le cinque navi seguivano il dromone. Le operazioni di sbarco iniziarono subito dopo che la flotta, messa a disposizione dall’emiro di Hadarru, ebbe raggiunto una baia riparata nei pressi di Tabarqa. Mille uomini non erano sufficienti per assediare una città ottimamente difesa, ma il Muqatil contava sugli appoggi che avrebbe avuto dall’interno.
’Abd al-Hisàm stava amministrando la sua sommaria giustizia nel palazzo dell’emiro, quando il comandante delle guardie lo raggiunse con aria trafelata.
«Stanno sbarcando uomini e macchine da guerra, mio signore. Sono almeno un migliaio di uomini. Sembrana bene armati e addestrati.»
«Quell’esiguo pugno di uomini non riuscirà nemmeno a far giungere una freccia all’interno di Tabarqa, verrà sconfitto molto prima. Chi li comanda?»
«Il Muqatil», rispose il militare, mentre le volte della stanza sembravano amplificare il nome che, da sempre, ’Abd al-Hisàm aveva temuto venisse pronunciato.
Il tremante ladruncolo che si trovava dinanzi a lui subì le conseguenze del terrore cieco che si impadronì di ’Abd al-Hisàm: «Mozzategli il capo ed esibite il trofeo per venti giorni nella piazza della città. Voglio che tutti vedano gli uccelli divorare i suoi occhi senza vita».
Hito Humarawa sbarcò sull’isola dove, solo qualche mese prima, lui e i suoi uomini sanguinari avevano seminato morte e distruzione.
Sorrise quando vide le lapidi appuntite e quelle stondate che indicavano la sepoltura, rispettivamente, di un uomo musulmano e di una donna. Qualcuno si era preoccupato di dare sepoltura agli abitanti del villaggio. E costui poteva essere solo il Muqatil: un guerriero spaesato e senza un rifugio. Un marinaio costretto a battere il mare perché non poteva essere accolto in nessun porto.
Il samurai diede un calcio a una lapide e un ghigno sinistro gli illuminò il volto.
Il sorriso sulle labbra di Diletta era capace di rinfrancare l’animo anche di quegli uomini abituati a guardare la morte in faccia.
E ognuno di quei rudi combattenti la trattava con profondo rispetto: non perché fosse la compagna del Muqatil, ma perché quella dolce e gentile fanciulla era sempre prodiga di cure nei confronti di chiunque ne avesse bisogno.
«Presto, sbrigatevi a sbarcare gli uomini e i cavalli», gridava ad alta voce il Muqatil ai suoi ufficiali: quello era il momento in cui sarebbero stati più vulnerabili a un eventuale attacco.
Trasportare dal bordo di una nave ancorata in una baia sino alla spiaggia tutto ciò che è necessario a un piccolo ma ben addestrato esercito non era certo una manovra rapida e facile.
Gli uomini, una volta a terra, si sarebbero occupati di edificare il campo e di proteggerlo con una palizzata. In seguito i carpentieri avrebbero realizzato un piccolo molo in legno, dove avrebbero accostato le navi per poter scaricare i materiali più pesanti e le macchine da guerra.
Il falco era poco più che un punto nel cielo. Al-Buraq volteggiò sopra Tabarqa a lungo, prima di andarsi a posare sulla più alta delle torri. I soldati della guarnigione, un manipolo di infedeli che tenevano in scacco la popolazione, lo guardarono con terrore.
«Eccolo. Ecco il suo falco. Il suo messaggero. Presto, arcieri, mano alle frecce.»
Al-Buraq rimase a osservare con i suoi attenti occhi gialli le guardie che si armavano di archi e balestre e incoccavano i dardi. I sensi acuti del meraviglioso animale riconobbero il pericolo imminente che veniva da quel gruppetto di uomini. Il falco emise un grido acuto, dispiegò le ali e, maestoso, si alzò in volo.
Il vessillo di ’Abd al-Hisàm sventolava sinistro sul pennone di ferro della torre. Al-Buraq lo serrò tra gli artigli, diede un colpo d’ali più forte e volò via.
I soldati non ebbero nemmeno il tempo di seguire il rapace con lo sguardo: sul crinale della collina dinanzi alle mura era appena comparso l’esercito del Muqatil schierato in ordine di battaglia.
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