«Ma che cosa dite? Quali servizi segreti? Io sono una studentessa che si mantiene agli studi lavorando…» Era troppo tardi. L’ago era penetrato nella vena e il liquido giallo stava già entrando in circolo.
«Ti ricordi, Sara, quando ti ho detto che erano arrivati alcuni dipinti dalla Francia?» aveva detto Marradesi, tenendo le braccia lungo il corpo e stringendo nella mano destra le due radiografie.
«Certo, ricordo benissimo. Anzi, abbiamo commentato quanto fossero scarsi i lavori che i nostri cugini d’oltralpe ci avevano commissionato e che questo ‘pacco dono’ non era passato attraverso Grégoire Funet.»
«Bene, il caso ha voluto che uno di quei quadri, La messe d’oro di Paul Gauguin, sia stato restaurato nel nostro stesso laboratorio circa quattro anni fa. La nostra ottima Alba è andata a ricercare in archivio i documenti che riguardavano quell’olio del 1889 e, nel confrontare le radiografie del bordo della tela, guarda che cosa ha scoperto.»
Sara prese le due lastre dalle mani di Toni, le mise in controluce ed espresse il suo verdetto: «Non si tratta della stessa opera. Uno dei due è sicuramente un falso».
La tecnica di radiografare i bordi delle tele era una tra le poche che consentisse con assoluta certezza di stabilire se un originale fosse stato sostituito con un falso. I contraffattori, ormai, avevano mani talmente perfette che era difficile riconoscere il tocco, e usavano materiali simili a quelli usati per l’originale proprio perché nessuno potesse dubitare dell’autenticità di un’opera. I musei e i grandi collezionisti avevano allora cominciato, catalogando le opere, a inserire nella documentazione anche la radiografia dei bordi della tela: una sorta di impronta digitale di ogni quadro, impossibile da contraffare.
«Ci hanno mandato anche la scheda?» chiese Sara.
«Certo, eccola qui», rispose prontamente Toni. «Senza che tu ti sforzi a leggere, ti dico che il Gauguin è rimasto, negli ultimi tre anni, nella sua tranquilla sede presso il Musée d’Orsay, con una sola eccezione: una mostra di una trentina di giorni al Museo dell’arte occidentale di Tokyo. Credi sia il caso di comunicare immediatamente la scoperta alla sovrintendenza francese?»
«Aspettiamo qualche giorno. Devo parlarne con Oswald.»
«Comincio a sentire odore di guai!» ribatté Marradesi, scuotendo il capo.
Roma imperiale, anno di Roma 814 (61 d.C.)
Agrippina aveva sempre pensato che, nel momento in cui fosse morta, Roma avrebbe tributato a una delle donne più influenti del suo tempo un degno commiato. E invece, al posto di funerali di Stato e di lapidi marmoree, il suo corpo venne cremato la sera stessa dell’assassinio e il Senato emanò un editto con cui si imponeva la cancellazione del nome dell’Augusta ovunque esso comparisse. Di lei rimase solo un piccolo sepolcro nei pressi della villa di Giulio Cesare, eretto qualche tempo dopo la sua scomparsa dai servi più devoti che ancora ricordavano l’Augusta.
Il carattere di Nerone, da quando era morta sua madre, si era ulteriormente inasprito. A volte, sembrava avere timore di ogni cosa, e a Lisicrate ricordava il bambino al quale aveva tentato di insegnare il senso della vita. In altre situazioni, invece, era arrogante e violento, pronto a reazioni inaspettate e spesso eccessive.
Lisicrate era stato scarcerato due giorni dopo la morte di Agrippina e aveva ripreso il suo posto al fianco dell’imperatore. Giulia Litia, invece, aveva dovuto attendere il processo: su di lei gravava pur sempre un’accusa di furto. Comunque, dopo un mese di carcere, venne prosciolta da ogni reato.
«Che succede, Nerone? Perché hai chiesto che venissi immediatamente?» domandò Lisicrate, vedendo l’imperatore disperato.
«Sono solo, Lisicrate. Mi manca l’abbraccio di mia madre… L’abbraccio della mia città, della mia gente…»
«Ma che cosa dici, Nerone, tutti sono con te.»
«Sono solo… Solo!» Dapprima Cesare scoppiò in singhiozzi, poi gli occhi si illuminarono di lucida follia. «Senti che cosa faremo, Lisicrate: allestiremo i giochi più fastosi a memoria d’uomo. Inviteremo atleti e poeti da ogni angolo dell’impero. Voglio macchine in grado di stupire chiunque. Voglio uno scenario senza eguali.»
C’erano oltre centocinquantamila persone ad assiepare il Circo Massimo. Molti vi avevano preso posto dal giorno precedente, quando erano state aperte le cancellate: soltanto senatori, cavalieri, magistrati in carica e il seguito dell’imperatore potevano godere di una zona riservata. Gli altri, compresi ricchi e patrizi, avrebbero dovuto arrangiarsi, magari mandando gli schiavi a tenere una postazione.
I Quinquatria erano stati preparati con cura e, come aveva chiesto l’imperatore, la scenografia era perfetta.
Nerone avanzava sulla pista con un abito bianco bordato d’oro. L’ovazione della folla si alzò fino al cielo.
Lisicrate lo osservava dall’alto della tribuna: il contatto con la folla, l’adulazione di tutta Roma, quello era l’unico desiderio di Nerone.
Come per incanto, dal tracciato che avrebbe visto di lì a poco le corse delle quadrighe, si aprirono alcune botole di grandi dimensioni e da queste spuntarono angoli fioriti di foreste e di piante esotiche, tra le quali si muovevano bellissime danzatrici. Il pubblico era in visibilio.
Lisicrate stava ammirando la sua opera, quando una mano gli strinse il braccio.
«Quante cose sa fare il nostro Lisicrate: il comandante di navi ad Alessandria, il guidatore di carri e lo scenografo a Roma.» Gli occhi di Simon Mago erano impenetrabili.
Lisicrate capì che Simone si era ricordato della notte nella necropoli e lo aveva riconosciuto nel corso della fuga con Giulia Litia. Con ogni probabilità, era stato proprio lui, d’accordo con Agrippina, a fargli piombare addosso il drappello di soldati.
Un boato della folla interruppe la conversazione tra i due.
L’elefante era bardato con preziose stoffe e paramenti d’oro, utili anche a mascherare l’imbragatura. Il piano inclinato percorso dalle funi copriva l’intera larghezza dello stadio. L’elefante, un animale enorme che aveva lasciato l’Africa da molti anni, penzolava a mezz’aria, sopra le tribune. Tutti i presenti stavano con la testa all’insù, mentre il pachiderma sembrava volare da un lato all’altro del Circo Massimo.
Della prima edizione dei Neronia sarebbe rimasta imperitura memoria.
Nerone appariva rinfrancato dall’affetto che Roma aveva mostrato nei suoi confronti. Sembrava che il popolo non potesse fare a meno dell’imperatore… o forse soltanto delle sue laute donazioni.
«Avevi ragione, Lisicrate. Il popolo mi ama. E io non riesco a stare abbastanza vicino alla mia gente», disse Nerone non appena Lisicrate lo raggiunse sulla pista del piccolo ippodromo.
Caligola aveva fatto costruire sulla destra del Tevere, all’interno dei giardini appartenuti alla madre nei pressi del Vaticano, un vero e proprio circo in miniatura, dove lui stesso, grande appassionato di cavalli, avrebbe potuto allenarsi. Dopo la morte di Gaio Cesare Caligola, la struttura era caduta in disuso. Nerone l’aveva quindi fatta restaurare, destinandola alla medesima funzione per cui era stata costruita dallo zio materno.
I quattro cavalli neri della quadriga imperiale tiravano calci all’aria sbuffando dalle nari: sembravano animali degli inferi, pronti a prendersi cura delle anime dei dannati.
L’imperatore vestiva la divisa dei suoi paladini: una sorta di scheletro semirigido fatto di strisce di cuoio intrecciate e un elmo con la struttura in legno rivestito, anch’esso, di cuoio. Sotto questi paramenti, che avevano lo scopo di proteggerlo dalle frequenti e pericolose cadute, Nerone indossava una veste color smeraldo.
«Che ne dici di vestirti, Lisicrate?» disse l’imperatore, eccitato dal gusto della sfida come un bambino. «Voglio vedere se l’allievo è ormai capace di superare il maestro.»
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