Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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Quando giunsero nei pressi della baia, tutti osservarono sgomenti quell’infernale visione: nessuno, nemmeno i pochi bambini, era sopravvissuto alla furia omicida degli assalitori. Le donne erano state orrendamente mutilate e giacevano, come macabro trofeo, inchiodate nude a ciò che rimaneva delle porte o dei tetti bassi delle case. Il villaggio era stato completamente distrutto.

Il Muqatil scese a terra accompagnato da una squadra dei suoi: la religione islamica imponeva una pronta sepoltura. Ma non c’era tempo per recitare le preghiere dei morti: i crudeli nemici potevano ancora incrociare nei pressi dell’isola sulla quale il Muqatil era stato felice.

E infatti Hito Humarawa non aveva mollato la preda: con la sua flotta era rimasto in attesa, poche miglia al largo dell’isola. Prima di ripercorrere a ritroso la rotta verso Venezia, voleva assestare il colpo di grazia a quello che considerava il suo peggiore nemico.

Non si poteva nemmeno definire odio ciò che provava il samurai: Humarawa non era in grado di provare alcun sentimento. Era una macchina creata per uccidere, come una balestra o una catapulta. E, come ogni macchina, era utile sino a che avesse portato a compimento il suo dovere.

Il falco Al-Buraq tornò al dromone lanciando il suo grido di richiamo. Tutti a bordo sapevano che cosa volesse dire.

Infatti, poco dopo: «Eccoli!» urlò la vedetta, indicando tre punti all’orizzonte.

«Uomini, conto su di voi», disse il Muqatil, nel silenzio della ciurma. «Spingete la nave alla massima velocità. Quegli infedeli dovranno pagare per le tante vite che hanno così selvaggiamente spezzato.»

Poi il giovane condottiero si rivolse a Diletta e alla sua ancella, comandando loro di scendere sottocoperta e di rifugiarsi nella sua cabina.

Il dromone filava come un delfino sulla superficie dell’acqua.

«Che cosa stanno facendo, quei pazzi suicidi?» si chiese Humarawa, osservando i baffi spumeggianti del dromone lanciato a tutta forza contro la sua galea.

«Forza, uomini, forza sui remi. Facciamogliela pagare!» incitava il Muqatil.

Mancava pochissimo all’impatto, quando la galea veneziana scartò di lato. Il dromone continuò la sua corsa inarrestabile colpendo la nave nemica. Molti dei diciotto remi della bordata andarono in pezzi, prima che lo sperone dell’imbarcazione saracena si conficcasse nella murata.

Rapidi, gli uomini del Muqatil invertirono il moto e il dromone, pur con qualche fatica, si disincagliò dalla nave speronata.

Il rostro, progettato dallo stesso emiro, aveva aperto una falla che, dalla linea di galleggiamento, arrivava sino al ponte superiore. La galea forse non sarebbe affondata, ma non era in condizione di riprendere immediatamente il mare. La punta di ferro, tagliente come una lama, nel disincagliarsi aveva sottratto un macabro trofeo: Zaydun il traditore, trapassato dal rostro, agonizzava infilzato sulla prora del dromone con gli occhi fuori dalle orbite e due rivoli di sangue ai lati della bocca.

Il Muqatil guardò in direzione della galea veneziana. L’uomo che stava al posto di comando non era un europeo. Vestiva con abiti orientali e i suoi capelli corvini erano raccolti al centro della testa.

Gli occhi dei due si incontrarono per qualche istante. Se gli sguardi avessero potuto duellare sino all’ultimo sangue, certamente lo avrebbero fatto.

«Ci rivedremo, orientale. E pagherai per quello che hai fatto», pensò il Muqatil prima di impartire ai suoi l’ordine di darsi alla fuga. Il dromone era in grado, con la sua velocità, di seminare qualsiasi inseguitore, a maggior ragione le due piccole navi che scortavano la galea.

Gennaio 2002

Taka osservò una seconda serie di istantanee. I lineamenti dell’uomo che usciva dalla casa di Kuniko Sagashi risultavano nitidi. Il segretario particolare di Yasuo Maru poteva essere soddisfatto: aveva finalmente individuato una macchia nell’integerrima vita della segretaria modello. Era stata una buona idea mettere alle costole di Kuniko un paio di kobun aderenti alla Yakuza, invece di quegli stupidi del servizio di sicurezza. E Taka aveva la sensazione che le sorprese non fossero finite lì.

Otto ore più tardi, dopo aver scoperto che il giovane europeo ritratto nelle fotografie era un addetto dell’ambasciata israeliana, Taka bussò alla porta dell’ufficio del Signore delle Acque.

Kuniko si risvegliò nel suo letto. Con la mano cercò invano il corpo di Bruno. La giovane rimase per un po’ così, da sola, a ripensare ai momenti di ardente passione di poche ore prima.

Il giorno seguente Kuniko Sagashi si presentò in ufficio in perfetto orario, come sempre. Sedette alla sua scrivania e cominciò a sbrigare l’ordinaria amministrazione.

L’ordine che proveniva dall’interfono la sollevò dalla routine e dalla sua sedia. Kuniko prese un taccuino e varcò la soglia dell’ufficio del presidente.

Il colpo alla nuca giunse inaspettato e improvviso; il dolore durò un solo istante, per lasciare subito il posto al buio e all’incoscienza.

Quando Kuniko rinvenne, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse rimasta priva di sensi. Sembrava che la testa stesse per scoppiarle. Il soffitto sopra di lei era arricchito con stucchi e i faretti erano incastonati nell’intonaco in modo da illuminare zone precise. Per quel poco che le era consentito di girare il capo, legata com’era, Kuniko riusciva a scorgere antichi reperti e dipinti che spesso aveva notato su libri di storia dell’arte o sulle copertine dei cataloghi.

Dopo aver consegnato i papiri «puliti e pronti all’uso» al suo diretto superiore, Toni Marradesi si era di nuovo calato nei lavori che giacevano in lista d’attesa. Soltanto qualche volta prendeva l’iniziativa di salire nella stanza del capo per chiedere a Sara Terracini come procedeva l’analisi dei documenti neroniani. Spesso gli veniva risposto con mugolii di soddisfazione, mentre la bella studiosa non scollava gli occhi dallo schermo del computer sul quale scorrevano le avventure di Lisicrate.

Alba, una giovane ed esperta collaboratrice del laboratorio, entrò nella stanza di Marradesi come una furia. Fra le mani teneva due fogli di pellicola nera, simili a quelli usati per gli esami radiologici.

«Guardi qui!» esclamò la donna, ponendo le due immagini in controluce e confrontandole.

«È sicura si tratti della stessa opera?» chiese Toni, conoscendo già la risposta.

«Senza ombra di dubbio, dottor Marradesi,»

«Credo sia il caso di comunicare la scoperta al capo supremo», disse Marradesi, avviandosi al piano superiore dove si trovava l’ufficio di Sara.

Visto da quella angolazione, Yasuo Maru incuteva ancor più timore. Kuniko era completamente immobilizzata. Le sue pupille ruotavano tra il viso arcigno del Signore delle Acque e le mani di Taka che stringevano una siringa.

«Lei si trova su un lettino da imbalsamazione risalente alla quinta dinastia egiziana. Non la eccita il fatto di sapere che, su questo stesso piano in granito, sono stati adagiati i corpi dei faraoni per essere preparati al viaggio nell’aldilà?» La voce di Maru era asettica, come se la vita che aveva tra le mani non lo riguardasse per nulla.

«Ma che cosa mi succede? Perché mi trovo qui, Maru sama ? Vi prego di liberarmi immediatamente, sono certa che vi state sbagliando.»

«È quello che vedremo, Kuniko Sagashi.» Poi Maru indicò la siringa a poca distanza dal braccio nudo e disteso della donna. «Lo sa che cosa è quello? Il farmaco base si chiama tiopental sodico, in pratica si tratta di un derivato moderno e potenziato del più noto pentothal. Nessuno può resistere alla droga della verità.»

«Che cosa volete farmi?» Inutilmente Kuniko cercò di divincolarsi.

«Vogliamo solo sapere quali fili legano la nostra bella collaboratrice ai servizi segreti israeliani.» Taka sembrava eccitato dal suo compito.

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