Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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«Anche io ti amo, e non sai quanto», mormorò il Muqatil quando ormai Diletta non poteva più sentirlo.

La nave veneziana fu abbordata dopo una giornata di inseguimento.

Il comandante e gli uomini dell’equipaggio erano schierati sul ponte con le mani alzate in segno di resa.

«Non vogliamo farvi alcun male, né saccheggiare il vostro carico. Vi chiediamo soltanto di riportare sane e salve queste donne a Venezia. Sicuramente riceverete una lauta ricompensa per tale azione», disse il Muqatil alla ciurma schierata.

«Abbiamo lasciato Venezia da pochi giorni», rispose il comandante, «ma non ci costa nulla invertire la rotta, a patto che ci lasciate liberi.»

«Avete la mia parola», concluse il guerriero saraceno.

Diletta rimase a osservare il dromone sino a che non scomparve all’orizzonte. Aveva gli occhi pieni di lacrime e il cuore colmo di angoscia. Al-Buraq, il falco, volteggiò un’ultima volta sopra la cocca veneziana, ed emise un grido di saluto per poi scomparire nella direzione presa dalla nave del Muqatil.

«È un grande onore avervi alla mia tavola, Diletta. Vostro padre è una persona molto stimata a Venezia…» I modi ossequiosi del comandante non placavano la disperazione della ragazza. «Mi auguro che quegli infedeli non abbiano abusato di quattro povere fanciulle. Comunque, anche il Muqatil avrà presto il fatto suo: una flotta è partita alla volta del suo nascondiglio segreto. Presto per lui non ci sarà scampo e questi mari saranno finalmente sicuri.»

«Che cosa state dicendo, comandante?» domandò Diletta che sembrò risvegliarsi improvvisamente dallo stato di torpore.

«Proprio quello che ho detto. Assieme a noi sono partite tre navi da guerra. Pare che un informatore abbia rivelato l’esatta ubicazione del nascondiglio del pirata.»

Poco dopo, una scialuppa di salvataggio veniva trainata a poppa. Era una piccola imbarcazione, capace di contenere una decina di uomini, armata con una vela e un paio di ordini di remi.

Non c’era voluto molto per convincere Giuditta: anche lei sembrava non avere nessuna intenzione di tornare a Venezia.

Diletta recuperò la cima a cui era assicurata la scialuppa e, con qualche difficoltà, le due donne riuscirono a scavalcare il parapetto e a calarsi a bordo.

Diletta tagliò la cima e la barca arrestò la sua corsa. La lanterna di poppa della nave scomparve nel buio.

Con precisi comandi, Giuditta indicò alla compagna che cosa doveva fare. Poco dopo, con la vela spiegata, quel guscio di noce dirigeva verso sud-est.

«Adesso come ritroveremo la rotta in questo mare che sembra non avere fine, mio comandante?» chiese Diletta con una punta d’ansia.

«Ringrazio mio padre per avermi insegnato a orientarmi con le stelle, mia signora.»

E le stelle le avevano condotte sulla giusta rotta, fino a che non si scatenò la tempesta.

Gennaio 2002

Il capitano Macchi dei carabinieri lavorava al fianco di Alberto Vite da anni. Aveva salutato il magistrato poche ore prima che questi morisse, quando gli aveva consegnato un dossier che Vite stava aspettando con impazienza. Vite gli aveva confidato che quelle informazioni riservate erano pervenute dalle alte sfere del Mossad, il temuto servizio segreto israeliano. Già, nemmeno lui poteva dimenticare gli uomini del Mossad, con i quali aveva portato a termine alcune missioni. Erano un manipolo di persone affiatate, perfettamente organizzate e, soprattutto, erano guidate da una sorta di nano dotato dell’intelligenza di mille uomini. Forse era Oswald Breil la persona giusta a cui si sarebbe dovuto rivolgere. Quando aveva riferito ai suoi superiori che non credeva alla morte naturale di Vite, questi gli avevano chiesto prove e non semplici presentimenti. Forse Breil era la persona giusta…

La porta della camera da letto di Yasuo Maru si aprì con estrema lentezza. Quella che apparve sulla soglia era poco più di una bambina, impaurita come può esserlo una bimba; non abbastanza piccola, tuttavia, da non capire. Forse era brasiliana, certamente sudamericana. Due seni acerbi si intravedevano sotto una camicia da notte che sarebbe stata più adatta a una prostituta di alto bordo che a una tredicenne.

Yasuo Maru era seduto sul letto, con le gambe incrociate. L’eccitazione si stava impadronendo della sua mente e del suo corpo.

«Come ti chiami?» Il tono della voce di Maru risultava falsamente dolce.

«Ga… Gabriela, señor.»

La bimba era truccata con tratti marcati e colori forti che stonavano su quella figura acerba come una bestemmia pronunciata in un luogo sacro.

«Lo hai mai fatto, Gabriela?»

«Mai, señor.»

«Giuramelo.»

«Lo giuro, señor, su quello che ho di più caro. Lo giuro.»

«Togli le mutandine.» Gli occhi di Maru sembravano spiritati, le sue mani strinsero il tanga di pizzo nero e lo portarono alle narici. Maru respirò il profumo della bambina, come Satana respira gli effluvi di zolfo degli inferi.

Quando Maru, dopo aver abusato in ogni modo della piccola per un’ora, le strinse il collo sino a soffocarla, forse si comportò per un istante in maniera umana: la morte avrebbe risparmiato a Gabriela il ricordo indelebile di quella terribile notte.

«Non funziona! Porca putt… non funziona!» disse Kuniko Sagashi nel microfono dissimulato in un bottone della camicia.

Dall’apparecchio ultrasensibile che aveva collocato sul soffitto dell’ufficio, esattamente sotto la camera da letto di Maru, provenivano soltanto una serie di ronzii.

«Non credo sia il microfono a non funzionare.» La voce di Bruno Milano giunse al microtrasmettitore nascosto nell’orecchio sinistro della donna. «Come i vetri esterni e tutta la struttura muraria, anche i pavimenti del palazzo sono stati schermati.»

«Schermati?» ripeté Kuniko, parlando con un tono bassissimo, sebbene l’ufficio fosse deserto.

«Emettono onde radio capaci di disturbare ogni tentativo di intercettazione ambientale.»

«Una porta!» esclamò Kuniko. La sua voce era velata di paura.

Il passo effeminato di Taka risuonò sul pavimento in teak dell’ingresso. Kuniko ascoltava il segretario di Maru canticchiare una celebre romanza in falsetto.

Quando Kuniko sentì la porta dello studio di Taka aprirsi, azionò il telecomando che avrebbe fatto staccare la microspia dal soffitto. Aprì la mano, afferrando al volo il disco poco più grande di una moneta.

Udì perfettamente il rumore di una cornetta che veniva sollevata, e di seguito Taka che diceva: «Il capo ha giocato a cricket, stasera. C’è un sacco di biancheria sporca da ritirare».

Forse, se Kuniko avesse saputo che il sacco da ritirare corrispondeva a una bambina comprata in una favela e ammazzata da un maniaco giapponese, avrebbe mollato tutto. O forse avrebbe usato la penna-pistola che le avevano consegnato quando era entrata nel Mossad, sperando di essere capace di uccidere.

Taka terminò la telefonata e uscì dal suo ufficio. Kuniko udì il rumore dei tacchi che si avvicinava al salone-reception in cui operavano le segretarie.

La donna sedette alla propria scrivania e cominciò a lavorare sul computer che aveva previdentemente acceso in precedenza.

E così la trovò Taka, quando entrò nella stanza.

«Come mai è di turno? Non dovrebbe aver finito qualche ora fa?» chiese il segretario particolare. Ma, come sempre, una di loro doveva essere presente. Il mondo non dorme mai, era una delle frasi ricorrenti di Yasuo Maru. E la Water Enterprise era radicata in ogni angolo del mondo.

«Ho chiesto di sostituire una collega: ho un impegno per dopodomani, giorno in cui dovrei essere io di turno, Taka sama. »

«Sa benissimo che voglio essere informato di questi cambiamenti e approvarli personalmente!» La voce stridula di Taka ricordava l’acuto di un soprano in un melodramma.

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