Poi fu la volta delle mani, mani forti e gentili, mani eccitate e curiose, mani che esploravano e si perdevano nel piacere.
Diletta sentiva il petto scosso dall’affanno, la sua bocca incollata a quella dell’uomo che amava. Provò dolore per un solo istante e infine dolcemente lo sentì dentro di lei. Si diedero l’una all’altro, abbandonandosi all’istinto.
Gennaio 2002
Da quando il magistrato era diventato capo della DNA, la sua residenza era situata all’interno di una caserma dei carabinieri nel quartiere romano Prati, per motivi di sicurezza. Alberto Vite abitava in un piccolo ma funzionale appartamento protetto dall’alto muro di cinta e da numerosi uomini armati.
Nella sua carriera, Vite aveva subito due attentati, ai quali era scampato miracolosamente. Negli occhi, però, aveva sempre vivo il ricordo del bagliore delle esplosioni, così come non dimenticava la visione di intere strade divelte per eliminare colleghi e amici.
Il mondo nel quale si muoveva un magistrato antimafia, il capo dei magistrati antimafia, era simile a un appezzamento rurale disseminato di mine antiuomo: ogni passo poteva essere fatale e provocare una reazione a catena. Forse per questo Vite non si era mai sposato e mai avrebbe deciso di crearsi una famiglia. La sua esistenza consisteva nel combattere il crimine organizzato, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi luogo.
L’uomo congedò la domestica che da tempo prestava servizio presso la sua abitazione. Accese il fornello sotto la macchinetta del caffè e rimase come ipnotizzato a osservare la fiammella azzurra che scaldava il fondo della caffettiera.
«Dovevano anche mettercisi i giapponesi!» pensò tra sé, versandosi il caffè in una tazzina. Per i servizi segreti italiani, muoversi al fine di ottenere informazioni in un altro continente comportava una serie di ulteriori difficoltà.
Vite riesaminò ancora una volta il dossier che i suoi erano riusciti a istruire in quei pochi giorni: una serie di notizie biografiche su Yasuo Maru e nulla di più.
Per fortuna, un informatore attendibile gli aveva riferito personalmente che il tentativo di accordo tra la mafia e la Yakuza si era concluso con un nulla di fatto. Il rovescio della medaglia era che la Cupola di Cosa Nostra si aspettava una massiccia azione dell’organizzazione giapponese nelle sfere di interesse della mafia. Questo avrebbe significato un percorso costellato di morti al fine di ottenere il predominio su interessi economici incalcolabili.
Vite si strofinò gli occhi: era stanco.
Guardò fuori dalla finestra dai vetri blindati. Nel cortile della caserma si muovevano le auto dei carabinieri, accompagnate dai bagliori blu dei lampeggianti. Spesso si era chiesto se ne valeva la pena. Se quel genere di vita reclusa e superprotetta avesse un senso. Poi, non appena gli giungeva notizia di un arresto eccellente o di informatori pronti a parlare, scendeva dal letto e, anche nel cuore della notte, si precipitava a compiere la sua missione.
Già, solo un missionario era capace di sacrificare ogni cosa per una causa.
Vite entrò nella stanza da bagno e si spogliò: una bella doccia era quello che gli ci voleva per cancellare la stanchezza.
La riunione degli oyabun , i capifamiglia, era in corso. Yasuo Maru aveva preso la parola come se non stesse presiedendo il summit del vertice della Yakuza, bensì il consiglio d’amministrazione di una delle sue innumerevoli società.
«Come avevo temuto, l’accordo con gli italiani è sfumato: la mafia si porta dietro troppi antichi fardelli per diventare un’organizzazione moderna e dinamica. Comunque, non c’è di che preoccuparsi: i nostri profitti sono oggetto di incrementi costanti e presto nuovi mercati si apriranno ai nostri interessi.»
A questo punto, Yasuo Maru illustrò una serie di dati e di introiti che provenivano dalle operazioni illegali dell’organizzazione.
«Al fianco di questo volano, capace di muovere una somma prossima ai dodici miliardi di dollari, rappresentato dalle attività non propriamente legali, ci sono le entrate che ci derivano dagli investimenti in operazioni fatte alla luce del sole. Prima tra tutte, la compagnia da me voluta e creata, della quale l’intera Yakuza è compartecipe. La Water Enterprise è ancora oggi in fase di espansione e vi preannuncio che siamo prossimi a chiudere un contratto di fondamentale importanza, che ci permetterà di incrementare notevolmente il già cospicuo volume d’affari della società. Se la nuova operazione dovesse andare a buon fine, saremmo in grado di entrare nelle case di oltre un miliardo di nuovi utenti, che, insieme ai circa due già acquisiti, porta a un totale di tre miliardi di esseri umani.» Gli occhi del Signore delle Acque assunsero un’espressione sinistra. «Pensate, tre miliardi di persone che devono la loro esistenza a noi, indiscriminatamente: potenti e persone comuni, ricchi ed emarginati. Un’infinità di case e fabbriche dalle quali potremo entrare e uscire quando vorremo. Rifugi impenetrabili e segreti dei quali abbiamo, per mezzo dell’acqua, le chiavi.»
Nello sguardo di Yasuo Maru balenò l’esaltazione del trionfo.
Oswald Breil abbassò la cornetta. Aveva un’espressione triste dipinta in volto. Alberto Vite era morto. Un vecchio amico era morto. Pensò che un uomo come lui avrebbe preferito essere ucciso sul campo, piuttosto che morire per un malore all’interno della doccia. Lo aveva sentito pochi giorni prima, quando aveva concordato con il magistrato italiano la visita del capo del Mossad, Derrick Erma.
Oswald disdisse tutti gli impegni per il giorno seguente: non voleva mancare all’ultimo saluto a una tra le poche persone che avevano goduto della sua stima e della sua amicizia.
L’indomani Roma era irradiata da un sole invernale e battuta da una fredda tramontana. La berlina blu dai vetri oscurati raggiunse il grande cortile all’interno della caserma dei carabinieri.
Oswald Breil e Derrick Erma scesero dall’auto e si avviarono verso la camera ardente allestita in uno dei locali dell’edificio militare.
I due israeliani rimasero a lungo davanti al feretro. Con Alberto Vite se ne andavano un paladino della giustizia e un pezzo della storia personale di Oswald Breil.
Henry Vittard non poteva sapere se e quanto Etienne Jalard fosse abile come agente segreto. Di sicuro sapeva che era un ottimo marinaio: da quando lo aveva imbarcato, sul C’est Dommage regnavano un ordine assoluto e una funzionalità ineguagliabile.
«Credo sia opportuno, signor Vittard, che lei carichi questo nella memoria del computer», disse Jalard porgendogli un floppy disk.
«Di che cosa si tratta?»
«È un programma capace di tradurre in linguaggio criptato qualsiasi lettera sia ricevuta sia spedita. Chi mi ha mandato qui ritiene che sia più prudente rendere non intellegibili i messaggi tra lei e la dottoressa Terracini. È inutile dire che il programma si collocherà in un angolo nascosto della memoria della macchina, praticamente invisibile, e che chiunque fosse talmente abile da individuarlo non riuscirebbe comunque a prelevarlo: il programma si cancella automaticamente di fronte a qualsiasi tentativo di copia.»
Yasuo Maru abbandonò la stanza del lussuoso albergo in cui si era tenuta la riunione degli oyabun. Il suo autista lo attendeva davanti all’ingresso principale del New Otani Hotel.
Il Signore delle Acque sedette sul sedile posteriore della limousine e diede una rapida scorsa ai giornali. La notizia della morte di Alberto Vite compariva su buona parte delle prime pagine dei quotidiani occidentali.
«Rifugi impenetrabili e segreti dei quali abbiamo le chiavi…» mormorò tra sé il Signore delle Acque.
Kuniko Sagashi entrò nell’ufficio del presidente dopo aver bussato. Yasuo Maru stava seduto alla scrivania: le fece cenno di attendere mentre lui avrebbe terminato una telefonata.
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