Kuniko rimase rispettosamente in disparte, mentre il Signore delle Acque congedava il suo interlocutore.
«Allora, Genji, siamo d’accordo. Domani sera a casa mia, e tu stessa garantisci l’esclusività della merce.»
Kuniko continuava a fingere il più totale disinteresse verso ciò che Yasuo Maru stava dicendo. In realtà, stava immagazzinando nella memoria ogni parola: non le ci era voluto molto per capire che Maru era in linea con Genji Enshigoju, la tenutaria della più esclusiva scuola di geishe di tutto l’Oriente.
Roma imperiale, anno di Roma 812 (59 d.C.)
Lisicrate entrò nelle stanze di Agrippina mentre la notte calava sulla città.
L’Augusta giaceva adagiata su un triclinio. Alcune ancelle la stavano pettinando e si prendevano cura della sua intramontabile bellezza. Indossava una veste di prezioso lino del colore dell’acqua di fonte, leggera tanto da essere quasi impalpabile.
Non appena Lisicrate fu nella stanza, Agrippina congedò le schiave.
«Poppea Sabina è una donna pericolosa», esordì Agrippina senza preamboli.
«Non la conosco a sufficienza per esprimere giudizi, Augusta», rispose Lisicrate guardingo.
«Devi comunque convenire che mio figlio è cambiato da quando lei ha fatto la sua comparsa. Trovo che il suo comportamento sia spesso preoccupante… In particolare nei miei confronti.»
Il precettore avrebbe voluto dire che, se qualche preoccupazione era sorta, riguardava più Agrippina che Nerone: nel palazzo si mormorava che, per strappare il figlio alle sue passioni per Atte e per Poppea, la madre gli avesse offerto il proprio corpo.
«Ancor meno vorrei esprimere giudizi riguardo all’imperatore», tagliò corto Lisicrate. Il greco sapeva che l’Augusta era stata abbandonata da tutti i fedeli servitori che lei stessa aveva posto al fianco di Nerone. Non c’era da stupirsi che adesso cercasse in Lisicrate un alleato per realizzare quei disegni che sembrava stessero naufragando.
Agrippina si alzò. Le trasparenze della veste mettevano in risalto le sue curve. La sua mano accarezzò i capelli neri dell’uomo.
«Sono ancora una donna potente, molto potente. Se tu sarai dalla mia parte, saprò come ricompensarti», sussurrò, mentre le sue dita giocavano con i corti riccioli sulla nuca del giovane.
«Non credo debbano esserci contrasti insanabili tra madre e figlio.» Così dicendo, il precettore si ritrasse.
«E invece sì, purtroppo ci sono, ma se tu esercitassi la tua influenza su Nerone, credo che riusciresti a riportarlo sulla retta via.» La donna accostò il proprio corpo a quello di Lisicrate.
Quale sarebbe la retta via, avrebbe voluto chiedere il greco, quella di seguire alla lettera ogni suggerimento e ordine di sua madre?
«Non credo di essere tanto influente da poter condizionare il pensiero dell’imperatore.» Ancora una volta il giovane si allontanò dalla matrona.
«Mi fuggi, Lisicrate. Non ti piace il mio corpo?» Agrippina si sfilò la veste.
«Te ne prego, Augusta. Non far sì che io mi trovi in imbarazzo.»
Mentre pronunciava queste parole, Lisicrate girò le spalle e fece per abbandonare la stanza.
La donna sembrava aver quasi perso il lume della ragione: mai le era capitato di essere respinta.
«E così tu osi rifiutare il mio corpo, il corpo di un’imperatrice?»
«Te ne prego, Agrippina…» disse ancora il greco, cercando di scrollarsela di dosso in maniera energica.
«Tu osi fare questo a me? Non sai di che cosa io sia capace! Avrai vita dura da oggi in poi, Lisicrate, e con te tutti quelli a te fedeli.»
Il precettore uscì dalla stanza, incurante degli improperi che sentiva crescere alle sue spalle.
Era notte, quando una mano scosse delicatamente la spalla di Lisicrate. L’uomo si destò. Cercò di mettere a fuoco l’immagine dinanzi a lui.
Giulia Litia aveva le guance rigate di pianto. Tra un singhiozzo e l’altro riuscì a dire: «Agrippina ha denunciato la scomparsa di un diadema d’oro. Il gioiello è stato rinvenuto nella mia stanza. Ti giuro, Lisicrate: io sono innocente».
«Non c’è tempo da perdere, Giulia. Devi fuggire immediatamente: la pena per il reato di cui sei incolpata è la morte.»
Le due guardie che sorvegliavano l’ingresso secondario del palazzo imperiale erano persone che Lisicrate ben conosceva. Faceva freddo in quella sera di marzo, e gli uomini stavano in piedi accanto a un braciere. Lisicrate si fermò a parlare con loro, facendo leva sulle passioni dei due, a lui ben note.
«I verdi hanno vinto ancora al circo. Non avete possibilità di rimontare», esordì il greco con fare canzonatorio.
«Il bello deve ancora venire. Si dice che i rossi abbiano ingaggiato un auriga imbattibile», rispose uno dei due.
La squadra rossa e quella verde erano le due più agguerrite nel darsi battaglia nelle corse dei cavalli.
«Già, ma fino a che Nerone sarà uno sfegatato tifoso dei verdi, non ci sarà modo di batterli», aggiunse l’altro.
In quello stesso istante, Giulia Litia sgattaiolava fuori dal portone.
«Bene, amici miei, Roma di notte è piena di sorprese. Credo che farò una passeggiata con questa fresca aria di primavera.» Lisicrate si congedò amichevolmente dai due guardiani.
Giulia era rimasta ad attenderlo in un antro buio nei pressi del palazzo. Teneva il capo coperto per non farsi riconoscere.
«Conosco una locanda a poca distanza da qui. Trascorrerai lì la notte, domattina decideremo cosa fare. Agrippina ha occhi e orecchie ovunque. Bisogna agire con molta cautela.»
Lisicrate era sinceramente affezionato a Giulia, e si sentiva responsabile della disgrazia che aveva colpito la donna: quella era la prima delle vendette concepite da Agrippina per il rifiuto da lui ricevuto.
Mar Mediterraneo, 1335
«Devo parlarti, Diletta», le aveva detto il Muqatil non appena si era completamente ristabilito.
«Sono qui, mio signore», aveva risposto lei con un sorriso, provando ad addolcire l’aria seria dell’uomo.
«Tu non puoi restare. Domani ti imbarcherai con me alla volta delle rotte commerciali. Abborderemo una nave veneziana e io consegnerò te e le tue ancelle al comandante, affinché vi riconduca nella tua città.»
«Io voglio restare al tuo fianco…»
«Non è possibile, così ho deciso. Io ho una missione da compiere. Non puoi restare accanto a un uomo che è pronto a sacrificare la propria vita, non certo per la famiglia o per gli affetti, ma per una causa che ti è del tutto estranea. Tu devi tornare da tuo padre, nella tua terra, e vivere in pace.»
«E che cosa ne sai tu della mia vita al fianco di mio padre? Che cosa ne sai di quale doveva essere il mio destino? Che cosa ne sai di quanto… di quanto… di quanto amore mi lega a te?» Gli occhi della giovane si riempirono di lacrime.
«Non fare così, rendi ogni cosa più difficile.»
«Tu, invece, hai reso la mia vita impossibile», esplose in un singhiozzo Diletta, fuggendo dalla casa del Muqatil.
Il dromone era pronto a salpare. Mestamente la giovane salì a bordo e, senza dire una parola, si sistemò a poppa.
Nel corso dei quattro giorni che seguirono, Diletta e il Muqatil evitarono anche di scambiarsi un solo sguardo.
Poi, la mattina del quinto giorno, una nave apparve all’orizzonte.
«Sei sicuro di quello che stai per fare, Muqatil?» chiese Diletta, rompendo il forzato silenzio.
«È meglio per tutti e due, Diletta, credimi…»
«Ma io… io ti amo più della mia stessa vita.» La giovane pronunciò la frase d’un fiato, come se avesse temuto che il coraggio di dichiarare il proprio amore potesse venirle a mancare.
Poi non resse e, ancora una volta, scoppiò in lacrime, sottraendosi alla vista di lui.
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