Lisicrate indugiò nel guardare la madre dell’imperatore: era ancora bella e autorevole. Fosse stata meno interessata al potere, avrebbe potuto ritirarsi dalla scena politica e trascorrere una vita agiata lontano da Roma e da Nerone.
Agrippina chiamò un servo con un gesto perentorio della mano. I suoi occhi verdi osservavano Lisicrate, poco distante. Qualche istante più tardi, quello stesso servo, accostatosi al precettore greco, gli sussurrava in un orecchio che l’Augusta lo avrebbe ricevuto quella sera nelle sue stanze.
Mar Mediterraneo, 1335
La galea si avvicinava a grande velocità alla nave comandata da Zaydun. Ogni tentativo di fuga sarebbe stato inutile. L’arabo diede ordine di ammainare le vele e di aspettare che la nave veneziana li raggiungesse.
«Siamo mercanti egiziani, amici di Venezia», gridò Zaydun verso l’equipaggio della galea, nella lingua che aveva appreso durante gli anni di prigionia.
«Avete il lasciapassare del doge?» domandò uno degli ufficiali veneziani.
«Certo che lo abbiamo», rispose Zaydun, e la sua mente corse al documento contraffatto custodito nella cabina del comandante.
«Saliamo a bordo per ispezionare la nave», disse ancora l’ufficiale, mentre una scialuppa veniva calata in mare.
Il piccolo zaruk aveva invertito la sua rotta e riguadagnato l’insenatura dell’isola. Nessuno, tra i molti che affollavano la spiaggia, aveva badato alle manovre delle quattro donne travestite da pescatori. Tutti erano in attesa che il Muqatil ferito venisse sbarcato.
Diletta e le altre raggiunsero il loro alloggio. Il villaggio sembrava deserto: ogni abitante era sceso al porto non appena si era diffusa la notizia.
La giovane veneziana aveva smesso gli abiti maschili, rivestendosi in tutta fretta. Una volta raggiunto l’alloggio del Muqatil, aveva dovuto farsi largo tra la folla.
Il guerriero giaceva sul letto. Era in stato di incoscienza e il suo colorito cereo non lasciva presagire nulla di buono.
«Presto, portatemi le erbe curative. Fate bollire molta acqua e datemi delle bende pulite», aveva ordinato Diletta che sembrava essere l’unica in grado di fronteggiare la situazione.
«Com’è successo?» aveva quindi chiesto a Salìm, il fedele primo ufficiale.
«Abbiamo abbordato una nave il cui equipaggio si è arreso senza colpo ferire. Quando siamo saliti a bordo del veliero catturato, un traditore ha scagliato un dardo di balestra contro il Muqatil. Sembrava una ferita di striscio a un fianco, di scarsa gravità. Le condizioni del nostro comandante, invece, sono andate via via peggiorando: la punta della freccia doveva essere intrisa di veleno.»
Zaydun si inchinò con reverenza dinanzi a Humarawa che avanzava sul ponte della sua imbarcazione.
«La mia nave e i miei uomini sono a vostra disposizione, signori», aveva detto l’arabo, ossequioso.
«Mostra il lasciapassare, egiziano», aveva ordinato uno degli ufficiali del doge.
Zaydun gli aveva porto il documento abilmente falsificato e recante i sigilli di Venezia.
L’ufficiale aveva dato una rapida occhiata al lasciapassare: sembrava che tutto fosse in regola. Quello che avevano appena fermato era di sicuro uno dei tanti mercantili amici che incrociavano in quei mari.
Zaydun sentì la tensione sciogliersi.
L’orientale, proprio mentre stava per abbandonare la nave, estrasse la spada che portava al fianco, recidendo con un sol colpo una delle corde che assicuravano il carico al ponte. Quindi tagliò il telo che copriva la merce.
Apparve uno dei sei grandi bauli che si trovavano sotto il telo. Le iniziali di Diletta Campagnola spiccavano, incise di fianco alla serratura di uno dei contenitori del corredo di nozze.
Diletta teneva un panno umido e lo premeva contro la fronte calda del Muqatil. La febbre lo stava divorando. I bei tratti del viso del condottiero erano quasi irriconoscibili. Sembrava che la morte avrebbe presto messo fine alle sue sofferenze.
«Ti prego, mio Dio», si ritrovò a sussurrare la giovane, «ti prego, fa’ che quest’uomo viva. Ti prego, mio Dio, Dio di tutti gli uomini. Ti prego, Signore di queste genti che ti chiamano con un altro nome, ma che si mostrano a te devote. Fai che il Muqatil non muoia. Io non riesco a provare rancore nei suoi confronti, anzi, a mano a mano che il tempo passa, mi sento sempre più legata a lui. Fa’ sì che viva.»
Il Muqatil emise un flebile lamento: un’altra notte stava scendendo. Quasi certamente sarebbe stata quella decisiva.
Zaydun stava in piedi davanti all’orientale. Aveva entrambe le mani legate dietro la schiena. Il resto dell’equipaggio, una quarantina di uomini in tutto, era stato incatenato nella stiva.
«Allora, dove si nasconde il Muqatil?» chiese Humarawa con fare minaccioso.
«Ve l’ho già detto, signore. Non conosco nessun Muqatil. Ho solo acquistato questo carico da un mercante saraceno. Pensavo di poter ottenere un ottimo ricavo vendendo la merce», aveva risposto Zaydun.
«E invece potresti diventare ricco rivelandoci dove si trova la base del pirata: sulla sua testa pende una grossa taglia», aveva insistito Humarawa.
Gli occhi di Zaydun avevano cambiato espressione, accendendosi di cupidigia e svelando il profondo risentimento che aveva sempre provato verso il suo comandante.
«Vi ho già detto che sono un mercante egiziano… E poi non riuscirei mai a rivelare cose che non so…»
«Te lo ripeto per l’ultima volta, Zaydun» — lo sguardo glaciale di Humarawa lasciava intendere che non stava mentendo —, «la tua vita, una vita che sicuramente sarà agiata, in cambio di una semplice informazione.»
«Un’informazione che mi potrebbe costare quella stessa vita agiata, se qualcuno lo venisse a sapere.»
«Stai tranquillo, nessuno dei tuoi uomini potrà mai tradire il tuo segreto.»
La notte era passata e Diletta non aveva mai voluto allontanarsi da lui. Il corpo del Muqatil, madido di sudore, giaceva ancora sul letto quando, alle prime luci del mattino, il condottiero aprì gli occhi.
La giovane non riuscì a trattenere due lacrime di commozione che le rigarono il viso: anche se lei stessa non voleva ammetterlo, amava quegli occhi color del mare, amava quel condottiero senza paura.
Zaydun rimase a osservare la sua nave che ardeva come un fuscello. Dalla stiva provenivano le grida disperate di quelli che erano stati i suoi uomini e che ora stavano affrontando una morte terribile.
In poco tempo la nave si inabissò senza lasciare superstiti.
«Non appena arriveremo a Venezia, riceverai la tua ricompensa, Zaydun», disse Hito Humarawa con aria soddisfatta. «Dopodiché accompagnerai noi e alcune navi di scorta fino al nascondiglio del Muqatil.»
Zaydun annuì. L’ombra del rimorso non sembrava nemmeno sfiorarlo.
I giorni trascorsero velocemente. Diletta era rimasta al fianco del convalescente, prodigandosi in cure e attenzioni.
«È strano», disse il Muqatil, «credevo tu mi odiassi e invece ti sono debitore della vita.»
«Non ho fatto nulla oltre che vegliarti e medicarti. Il merito della tua guarigione non è mio, ma di Dio che non ha ritenuto giusto tu morissi.»
«Quale Dio, donna? Il mio o quello della tua gente?»
«C’è forse differenza di fronte al dolore e alla morte? Ebbene, sappi che ho pregato anche il tuo Dio, affinché tu guarissi.»
«Questo mi fa pensare che la mia vita ti stia a cuore.»
«Smettila di parlare», sorrise imbarazzata la giovane. «Adesso devo cambiarti la fasciatura.»
Il Muqatil si sdraiò sul fianco. Le mani di Diletta cominciarono a togliere le bende dalla ferita, ormai prossima a rimarginarsi.
La pelle nuda dell’uomo era vellutata. I suoi muscoli erano contratti per il dolore provocato dalla medicazione. Con gesti delicati Diletta cercava di causare il minimo disagio al malato. La giovane sentì l’eccitazione impadronirsi di lei. Un leggero movimento e il lenzuolo scivolò di lato, mostrando che non era la sola a essere eccitata. Le mani di lei si soffermavano nei pressi della ferita, sfuggendo, premendo. Infine Diletta ruppe ogni indugio. Le sue dita lo avvolsero come un fiore che si chiude al calar della notte. La bocca di lui la cercò, premette sulle sue labbra e lei le aprì, lasciando che la lingua dell’uomo la bagnasse di desiderio.
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