Il fatto che un nobile o un potente si esibisse recitando versi su un palcoscenico o partecipando ai giochi nel circo era considerato altamente sconveniente per la morale romana. Nerone aveva seguito i consigli della madre e dei precettori, almeno per le corse dei cavalli, nei quali sembrava aver ereditato la passione da Caligola: non si era mai esibito in pubblico, malgrado fosse diventato un provetto guidatore.
A dire il vero, quando l’imperatore si allenava sulla sua pista privata, una folta moltitudine di persone affollava le gradinate. Dapprima tifosi e curiosi erano stati tenuti lontani dalle guardie, ma in seguito, per ordine dello stesso imperatore, anche le cancellate dell’ippodromo privato erano state aperte a tutti.
Lisicrate aveva trentotto anni e non aveva mai abbandonato l’esercizio e la cura del fisico. Il suo torace muscoloso, fasciato dai paramenti da auriga, appariva ben diverso da quello di Nerone che, seppure dotato di forza e agilità, cominciava a dar segni di quella tendenza alla pinguedine tipica nella sua famiglia paterna.
Le due quadrighe si allinearono sulla linea di partenza, l’una accanto all’altra, pronte a lanciarsi nella corsa. Nell’arena calò il silenzio. Il drappo sventolò sulla sommità del palo: era il segnale.
Nerone partì per primo, forse anticipando leggermente il via.
Lisicrate si accodò, governando le quattro briglie con destrezza e tenendo a freno l’irruenza dei cavalli.
L’imperatore compì in testa il primo dei sette giri concordati: i suoi purosangue neri erano lanciati alla massima velocità. Nel corso del secondo giro, il suo vantaggio aumentò considerevolmente. Sembrava quasi che la distanza fosse insormontabile. Lisicrate, vestito con i colori dei rossi, eterni avversari dei verdi, sembrava quasi rallentare di proposito. Un mormorio di disappunto si levò dalle tribune: il pubblico non gradiva una condotta che appariva quantomeno servile.
Al terzo giro, quando Nerone si trovava in vantaggio di due buone lunghezze, Lisicrate mollò le briglie e affrontò con decisione le curve della pista, calcolando al millimetro ogni traiettoria.
Ormai la distanza che separava i contendenti era stata colmata, e inoltre i cavalli del greco sembravano più freschi.
Quando mancavano due giri al termine, Lisicrate sferrò l’attacco: scartò di lato e, mentre Nerone, accortosi della manovra, proteggeva la sua destra dall’attacco, la quadriga dei rossi scartava bruscamente a sinistra, infilandosi nella parte interna della curva.
Lisicrate iniziò in testa l’ultimo giro. Nerone sembrava furibondo: non poteva sopportare l’onta della sconfitta di fronte al suo pubblico. La frusta dell’imperatore si abbatteva sulle schiene nere dei cavalli senza pietà.
L’ultima curva si stava ormai avvicinando. I puledri di Nerone affiancarono quelli avversari dall’esterno. I due carri, lanciati a folle velocità, entrarono in curva: sembrava che nessuno dei due conducenti avesse la minima intenzione di cedere il passo. Nerone serrò le briglie dei due cavalli all’interno, stringendo l’altro cocchio verso la palizzata che delimitava la curva.
Lisicrate non si lasciò intimorire da quella manovra scorretta. Si voltò verso Nerone e non si meravigliò di vedere nei suoi occhi la luce pericolosa che ormai aveva imparato a conoscere. Le ruote vennero a contatto. Alcuni schiocchi sordi ruppero il silenzio teso dell’arena, quando il mozzo della ruota di Nerone si infilò tra i raggi di quella dell’avversario. Il cocchio di Lisicrate venne sbalzato verso l’alto, ricadde in maniera scomposta e poi si rovesciò, trainato per qualche lunghezza dall’impeto dei destrieri. Il precettore fu scagliato sulla sabbia soffice della pista, fece alcune piroette e si rialzò. Nello stesso tempo la quadriga di Nerone, priva di controllo, colpì con grande impeto la palizzata. Due dei quattro cavalli caddero a terra.
L’imperatore si resse saldamente al corrimano del cocchio. Resistette alla violenza dell’urto e, quando la sua quadriga si arrestò, scese con agilità, completamente illeso.
Il pubblico rimase in silenzio: la sorte dei due aurighi era avvolta da una nuvola di polvere sottile.
Poi la polvere si diradò. I due avversari erano adesso visibili: Nerone teneva una mano sulla spalla del precettore: entrambi erano sporchi e impolverati. Il rosso del sangue di alcune escoriazioni superficiali si mischiava con la sabbia, formando macchie di colore scuro sui loro corpi.
Nerone alzò il braccio di Lisicrate e parlò con voce affannata, ma abbastanza alta da poter essere udita da tutti i presenti: «Lisicrate è un uomo di valore e un amico».
Il pubblico rispose alla dimostrazione di coraggio del greco con un urlo di incitamento. Ancora il tifo non si era spento, che Nerone si era chinato verso il più malridotto dei destrieri, e, accarezzandogli la cavezza, lo chiamava per nome. I servi erano sbucati da ogni parte, preoccupati per l’incolumità dell’imperatore.
«Sia risparmiata a questo animale ogni inutile sofferenza», disse Nerone, indicando il cavallo a terra. «Uccidetelo, ha entrambe le zampe posteriori fratturate.»
Lisicrate e l’imperatore raggiunsero gli spogliatoi.
Dopo essersi immersi in una vasca di acqua tiepida, si affidarono alle cure delle esperte mani dei massaggiatori.
«Il popolo mi ama. Non riesco a stare lontano dal mio popolo.»
Lisicrate sapeva che cosa Nerone intendesse con quella frase: era ormai sulla bocca di tutti che l’imperatore fosse uso a travestirsi da plebeo e vagare la notte in compagnia di amici tanto scellerati quanto fidati. Spesso queste scorribande notturne si concludevano in risse di strada. Una volta Nerone, venuto alle mani con un patrizio molto robusto, aveva rischiato la vita.
«La tua idea di democrazia ti fa onore, Nerone», si limitò invece a rispondere Lisicrate. «Assomiglia molto a quella ellenistica o egiziana del capo di tutte le genti. D’altronde, la tua stessa cultura è ben più vicina a quella della Grecia erudita che all’indole militare di un popolo di conquistatori.»
«La Grecia… la Grecia», ripeté Nerone con occhi sognanti. «Io devo anzitutto a te il mio modo di pensare.»
«A me come ad altri precettori…» disse Lisicrate.
«Lascia stare gli altri.» Una smorfia di rancore profondo aveva offuscato il viso di Nerone. «Loro hanno sempre parteggiato per mia madre. Sia Seneca sia Burro l’hanno sempre assecondata per poi uscire allo scoperto nel momento in cui si trattava di farla uccidere. Io non dimentico, Lisicrate… Non dimentico.»
Mar Mediterraneo, 1335
Muhammad, emiro della regione di Al-Andalus nella Spagna saracena, rimase ad ascoltare in silenzio il racconto del Muqatil. Inorridì di fronte alla ferocia con cui gli infedeli avevano infierito sugli abitanti del villaggio, e ritenne saggia la decisione del condottiero di trovare salvezza al riparo delle alte mura della città di Hadarru.
«Ormai i precari equilibri che assicuravano la tregua sembrano essersi dissolti al sole: gli scontri tra i miei uomini e gli infedeli si stanno moltiplicando. Posso darti un migliaio di uomini per riprendere Tabarqa, Muqatil. La tua città, governata da un fantoccio nelle mani dei cristiani, costituisce una spina nel fianco per tutta la terra santa al Profeta.»
Diletta era stata accolta a palazzo con una diffidenza che, con il passare dei giorni, si era trasformata in indifferenza. Alla fine, mentre l’uomo che amava era impegnato negli addestramenti del contingente affidatogli dall’emiro di Hadarru, questi la mandò a chiamare.
«Il Muqatil è il discendente di una persona che ha goduto della mia amicizia. Per me è come un figlio. Ma quali sentimenti legano te, una donna di un’altra cultura, a lui?»
«L’amore, mio signore. Soltanto il più profondo e disinteressato amore. Credo che questo sia il sentimento che ogni religione riconosce come l’impulso principale per chiunque voglia credere in un qualsiasi Dio.»
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