Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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«Calmatevi, signore. Sedetevi e raccontate i dettagli di questa tragedia.»

«I pirati hanno accostato la cocca durante la notte e ridotto all’impotenza l’equipaggio. L’imbarcazione navigava nella bonaccia, abbastanza isolata dal convoglio. In poco tempo hanno svuotato le stive e imprigionato Diletta insieme con le altre tre donne. Nella tarda mattinata, quando alcuni marinai hanno raggiunto la nave fuori rotta e apparentemente deserta, hanno trovato tutto l’equipaggio superstite incatenato nella stiva. Di mia figlia non c’era traccia: era stata rapita dai pirati.»

«Avete idea di chi possa essere il responsabile di tale scempio?» chiese Crespi.

Campagnola pronunciò una sola parola con disprezzo: «Muqatil». Poi, dopo un istante di silenzio, riprese: «Credo che voi e il vostro amico orientale, così abile nel maneggiare armi e nel respingere scorrerie, possiate essermi d’aiuto».

«E in che modo? Humarawa è ancora ospite delle carceri veneziane.»

«Ho ottenuto una dispensa del doge, valida a patto che Humarawa decida di aiutarmi.»

«Andate avanti, signore. Quello che dite sta cominciando a diventare interessante…»

Diletta si era rifiutata di mangiare per giorni, poi la rassegnazione aveva avuto la meglio.

Il trattamento che era stato loro riservato era irreprensibile: lei e le tre donne occupavano una stanza in una delle case e godevano della più assoluta libertà di movimento sulla piccola isola vulcanica. Nessuno aveva più osato mancare loro di rispetto.

La nave del Muqatil era partita in missione già alcune volte, ognuna per una decina di giorni. Inspiegabilmente, Diletta si ritrovava spesso a osservare il mare, in attesa che il condottiero dagli occhi color cobalto facesse ritorno.

Il solo fatto di provare qualcosa di vagamente simile all’ansia nei confronti del suo rapitore era sufficiente a farla infuriare. Diletta era convinta di poter nutrire soltanto odio per il Muqatil. Eppure quegli occhi erano stati capaci di aprire una breccia nel suo cuore.

Con frequenza sempre maggiore, la giovane veneziana portava il suo aiuto alle poche donne dell’isola nelle loro faccende e, quando il primo bambino vide la luce nel villaggio, Diletta si comportò come la più esperta delle ostetriche.

Il Muqatil era in piedi a poppa della nave. Il dromone avanzava maestoso, spinto dall’incessante ritmo dei remi.

Il condottiero stese il braccio, coperto da una pelle di animale, aprì la mano e la serrò a pugno. Il falco scese da un punto indefinito nel cielo terso e andò a stringergli i possenti artigli attorno al braccio coperto dalla pelle.

Kahyr, l’ammaestratore di piccioni viaggiatori, sorrise, esclamando: «Adesso tu sei parte di lui, ti sarà fedele per sempre».

«Al-Buraq, ti chiamerò con lo stesso nome del cavallo alato che condusse in cielo il Profeta», disse il Muqatil, calando un cappuccio sulla testa del falco.

L’isola di Albiola era una piccola striscia di terra, quasi dimenticata all’interno della laguna veneziana.

Hito Humarawa osservava con sguardo severo quelli che sarebbero diventati gli uomini con i quali avrebbe dato la caccia al pirata saraceno: erano tutti detenuti per reati gravi, graziati solo al fine di partecipare alla spedizione. Avrebbero avuto diritto alla libertà e a una parte del bottino solo in caso di vittoria. Tutti avevano in comune buone capacità marinare e molta pratica nei combattimenti e nell’uso delle armi.

Per addestrare quel manipolo di rinnegati, Humarawa si avvaleva sia del fido Wu sia dell’ausilio di cinque ufficiali della flotta veneziana. Non erano di sicuro gli uomini migliori che il doge poteva offrire, ma avevano fegato e, quel che più contava, erano assetati di sangue.

«Mi sembra che gli addestramenti procedano bene», aveva detto Angelo Campagnola a Crespi, indicando gli uomini che si muovevano con agilità nell’ipotetico scenario di uno scontro.

«Humarawa si sta impegnando al massimo, a cominciare dalla padronanza dei termini con cui impartisce gli ordini: ha persino compilato un dizionario contenente le parole più usate nella nostra lingua, lingua nella quale sta facendo notevoli progressi.»

Gli uomini erano stanchi e sudati. Alcuni di loro presero le balestre e si esercitarono nel tiro, una disciplina nella quale i veneziani erano veri maestri. Le gare di tiro con la balestra tra i sestieri erano all’ordine del giorno, e sin da bambini gli abitanti della laguna diventavano abili in quella che era considerata una vera e propria disciplina.

Humarawa guardava i suoi con aria moderatamente soddisfatta: sarebbe riuscito a fare di quell’accozzaglia di delinquenti un gruppo di uomini bene addestrati. Certo il bushido dei samurai era ben diverso, era anzitutto un codice d’onore.

«Già, ma quale onore?» pensò Humarawa, cedendo per un attimo alla malinconia e al rimpianto. «Io sono simile a questi uomini, anch’io sono un rinnegato e un disonorato. La sola forza che mi spinge a vivere è la sete di battaglia.»

«Wu», disse poi il samurai ad alta voce, «se continui a percuotere i Gai-Jin con quel bastone, ti ritroverai senza allievi.»

Il gigante cinese si distrasse per un attimo dalla sua occupazione e il suo avversario lo disarcionò dal tronco che stava presidiando.

«Dovete fare in fretta, Humarawa», continuò il Campagnola rivolgendosi al giapponese. «Tra poco, con l’arrivo della primavera, i traffici marittimi riprenderanno in maniera consistente e di sicuro il Muqatil uscirà allo scoperto.»

Gennaio 2002

Yasuo Maru era appena rientrato dal suo viaggio in Europa e sembrava di pessimo umore. Lo Shimakaze era rimasto ormeggiato in un porto italiano.

«Segreteria personale di Yasuo Maru sama. » La voce gentile di Kuniko Sagashi rispose al telefono, pensando si trattasse di una delle innumerevoli telefonate d’affari che si erano susseguite da quando Maru era rientrato.

«Sono il generale Zhu Ling. Vorrei parlare col presidente Maru», disse una voce dai toni marziali.

Pochi istanti dopo i due orientali si trovavano in linea.

«Ha avuto modo di valutare la mia offerta, presidente Maru?» chiese il potente responsabile della Commissione militare della Repubblica Popolare Cinese.

«Avrei bisogno di conoscerla in ogni suo dettaglio, presidente Zhu Ling. Che ne direbbe se ci incontrassimo? Da tempo progetto un viaggio in Cina e questa potrebbe essere l’occasione adatta.»

«D’accordo, Maru sama. Ma sarebbe meglio non qui a Pechino: anche le foglie hanno orecchie…»

Derrick Erma sedette nella stanza del magistrato italiano. Da anni Alberto Vite era a capo della DNA, la Direzione Nazionale Antimafia. Era un vecchio amico di Oswald Breil e si era reso volentieri disponibile per incontrare il capo del Mossad.

«Il nostro comune amico mi ha preannunciato la sua visita, dottor Erma», salutò l’alto magistrato italiano, stringendo calorosamente la mano dell’ospite. «Sono molto felice della nomina di Oswald Breil a primo ministro. Credo che ci sia davvero bisogno di uomini come lui alla guida di Israele. Ma veniamo a noi, dottor Erma. In che cosa possono esserle utili le istituzioni italiane?»

Erma aprì la cartellina che aveva tolto dalla borsa. Le scritte che raccomandavano la massima segretezza spiccavano in rosso sull’incartamento. Pochi istanti dopo, le foto che ritraevano i componenti della Cupola mafiosa, mentre si allontanavano dallo Shimakaze , ingombravano la scrivania di Alberto Vite.

«Interessante», commentò il magistrato, dopo aver ascoltato con attenzione il capo del Mossad. «E così voi ritenete che la Yakuza, attraverso Maru, stia tentando di stringere alleanze con altre organizzazioni criminali… Se conosco la mentalità mafiosa, credo che tali offerte si ridurranno a un nulla di fatto. La Cupola è struttura sacra e sovrana, che non ammette ingerenze o alleati, da qualsivoglia parte provengano. Senza contare, poi, che anche la mafia sta vivendo un periodo non facile: tra i duri colpi subiti da parte delle istituzioni e le crisi di successione interne, credo che il suo gotha abbia ben altro a cui pensare in questo momento. Dubito proprio che voglia allearsi, ma sarebbe meglio dire confluire, con un’organizzazione criminale dell’Estremo Oriente. Comunque, le informazioni che mi ha fornito sono di grande interesse, dottor Erma, e svolgerò indagini sull’argomento.»

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