«Basta, Zaydun!» La voce imperiosa del Muqatil riempì la stanza. «Ti ordino di smetterla!»
Zaydun si alzò; dal suo sguardo trapelava un forte risentimento nei confronti del suo comandante che gli aveva impedito di consumare lo stupro.
Tra le lacrime, Diletta riuscì a distinguere la figura dell’uomo che l’aveva salvata.
Il Muqatil si chinò e raccolse il pugnale dalla lama sottile con cui la donna aveva ferito il suo aggressore. Lo deterse dal sangue di Zaydun e rimase a osservarlo: era un’arma pregiata, dal manico in oro con incastonati due smeraldi e un grosso rubino sulla sommità dell’elsa. Al centro dell’impugnatura si trovava, eseguito a sbalzo, un leone di San Marco con due piccoli brillanti al posto degli occhi. Nonostante la sua pregevole fattura, lo stiletto sembrava ottimamente bilanciato e adatto a diventare un pugnale da lancio. L’emiro lo infilò alla cintura, mentre Diletta fremeva d’odio.
«Io vi maledico! Dio saprà fare giustizia.» I pugni chiusi della giovane si scagliarono contro il petto del Muqatil, coperto dall’armatura di pelle.
Lui strinse senza alcuna brutalità le mani della ragazza e la condusse sul ponte.
Le operazioni di trasbordo del carico durarono poche ore. Prima che rischiarasse, l’equipaggio veneziano era stato legato e rinchiuso in una stiva. All’alba, la nave assalita sembrava seguisse il resto del convoglio: gli uomini del Muqatil avevano legato il timone poco prima di abbandonarla. Del dromone pirata non c’era nessuna traccia.
Con buone probabilità, le altre navi avrebbero scoperto l’arrembaggio e il rapimento delle donne solo a tarda mattinata, quando ormai i pirati sarebbero stati imprendibili.
Dicembre 2001
«Abbiamo recuperato il reperto, Maru sama , sotto oltre un metro di sabbia. Credo che l’ottimo stato di conservazione dipenda proprio da questo», spiegò uno dei subacquei porgendo un involucro al Signore delle Acque.
Yasuo Maru aprì il sacco di plastica con la stessa emozione con cui un bambino scarta i regali di Natale.
Il pugnale aveva buona parte della lama, almeno quella visibile, logorata dagli agenti ossidanti. La punta era conficcata in un pezzo di legno scuro, probabilmente parte di una nave. Il manico dell’arma era d’oro massiccio. Su un lato si potevano scorgere due incastonature che un tempo avevano forse contenuto pietre preziose. Il grosso rubino, invece, ancora ornava la parte superiore dell’elsa.
Yasuo Maru scosse la testa e porse l’arma con il suo singolare supporto a Funet.
Questi la esaminò con attenzione e, senza indugio, emise il suo verdetto, indicando la figura sbalzata sull’elsa.
«Non corrisponde a quello che stiamo cercando: si tratta di un’arma appartenuta a un notabile veneziano, o comunque proveniente da Venezia, a giudicare dal leone di San Marco eseguito a sbalzo. Credo, guardando la lavorazione delle incastonature, che il periodo di realizzazione del pugnale sia collocabile tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo: nulla a che vedere con un imperatore romano.» Funet parve illuminarsi: «… a meno che… a meno che…»
La frase, tratta da un reperto sconosciuto che Henry Vittard gli aveva chiesto di tradurre, poteva forse appartenere allo stesso periodo e il suo ex compagno di studi era alla ricerca di un esperto in sovrapposizione di relitti. Quel pugnale da lancio era rimasto conficcato in un legno appartenente alla struttura di una nave. Era fin troppo facile collegare i due ritrovamenti.
«Con buone probabilità ci troviamo sulla stessa strada percorsa da Vittard e dal suo amico ammiraglio», esordì Funet. «Credo che in questo luogo siano naufragate due navi, l’una a oltre un migliaio di anni di distanza dall’altra. E la tomba di sabbia che ha inghiottito i due relitti — o quello che ne rimaneva — ha fatto sì che, nei secoli, il sepolcro restituisse brandelli del passato. L’anfora che ho visto recuperare nel filmato a Vittard non era certo medievale, anzi apparteneva con assoluta sicurezza al periodo imperiale. Questo pugnale che un’antica mano ha scagliato nel legno potrebbe invece risalire alla stessa epoca dell’iscrizione che ho tradotto per Vittard.»
«Quali che siano le sue conclusioni, signor Funet», disse Maru, «avrà tempo e modo di verificarle nei prossimi giorni. I miei impegni di lavoro non mi consentono di rimanere ancora qui. A partire da domani mattina, lei dirigerà le ricerche di una squadra di sommozzatori e mi terrà costantemente informato su ogni sviluppo. Mi raccomando, prudenza. Per tutti, lei dovrà apparire come l’accompagnatore di alcuni escursionisti subacquei giapponesi.»
Sara Terracini si strofinò gli occhi con il dorso della mano. Si sentiva stanca e il lavoro procedeva a rilento: i papiri erano troppo ben conservati per potersi permettere il lusso di commettere errori. Aveva bisogno di una pausa, dopo ore e ore trascorse nella massima concentrazione.
Accedette alla propria casella di posta elettronica e non si stupì di leggere il nome di Oswald tra quello dei messaggi in arrivo. Aprì il programma di decrittazione, celato in una inviolabile memoria del suo computer. Il testo, una massa informe di lettere e simboli, divenne presto comprensibile.
‹SCUSAMI SE RIESCO A COMUNICARTELO SOLTANTO ADESSO, MA, COME GIÀ TI HO DETTO, RITENGO CHE I TUOI AMICI ABBIANO BISOGNO DI UNA QUALCHE PROTEZIONE. CON LE DOVUTE CAUTELE, FAI LORO SAPERE CHE HO DISPOSTO AFFINCHÉ VENGANO SORVEGLIATI. NON VORREI TU FOSSI RIUSCITA A SCOPERCHIARE UNA DELLE PENTOLE IN EBOLLIZIONE IN CUI AMI TUFFARTI. SHALOM. OSWALD.›
« Io amo tuffarmi??» commentò Sara a denti stretti. «Senti chi parla! Comunque è meglio che mi tuffi nel lavoro, altrimenti le vicende di Nerone potrebbero aspettare altri venti secoli.»
Toni Marradesi si asciugò la fronte. Con espressione soddisfatta, osservò il risultato della sua opera: nessuno dei papiri aveva subito danni degni di nota nel corso dei procedimenti.
La lunghezza di ciascun rotolo, una volta dispiegato, raggiungeva quasi in tutti i casi i dodici metri. Ognuno dei fogli scritti in verticale per l’intero sviluppo del papiro era stato squadrato con precisione meticolosa. In ogni rotolo si trovavano, in media, una ventina di fogli.
I caratteri greci erano spesso illeggibili o totalmente cancellati. Marradesi sorrise, mentre preparava il primo degli oltre duecento fogli per l’esame successivo.
Toni amava essere considerato un buon braccio operativo. Per questo evitava sempre di leggere o di tradurre in anticipo le iscrizioni che trovava sui reperti nel corso dei complessi esami a cui li sottoponeva. Anzi, sebbene lo stesso Marradesi fosse pienamente padrone di una dozzina di antichi idiomi, amava attendere il responso di Sara sui documenti.
«La mente avrà di che divertirsi», rifletté tra sé Toni, pensando a Sara alle prese con la traduzione, poi sistemò le luci e puntò la telecamera.
Definire «telecamera» un apparato CCD raffreddato ad alta risoluzione era quantomeno riduttivo. Quel dispositivo era in grado di effettuare riprese sensibili sia alle radiazioni visibili sia a quelle infrarosse. Era quindi possibile utilizzare un’illuminazione non troppo potente, particolarmente adatta per gli antichi supporti scrittori che, se riscaldati dalle lampade, avrebbero potuto subire danni irreversibili.
Le immagini ottenute risultavano di altissima qualità, dovuta sia all’elevata risoluzione della telecamera sia alla possibilità di registrazione di dati digitali in una scala di oltre quattromila toni di grigi. Ognuno del milione e quattrocentomila pixel, i microscopici elementi di cui si compone un’immagine digitale, aveva una misura di sette micron. La telecamera operava a una temperatura costante di quaranta gradi ed era dotata di un raffreddamento ad aria forzata.
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