Con papiri di ragguardevoli dimensioni, come quelli oggetto dell’indagine di Marradesi, era necessario eseguire diverse riprese, che poi sarebbero state ricomposte in una sorta di collage digitale. Le informazioni raccolte sarebbero quindi state vagliate da un computer che avrebbe consentito di migliorare ulteriormente la leggibilità del testo. In seguito, lo stesso computer si sarebbe occupato di eseguire una prima stesura della traduzione in una delle oltre cento lingue in cui era stato programmato.
«A noi!» esclamò Marradesi, mimando un’immaginaria stoccata verso la complessa apparecchiatura. La telecamera cominciò a immagazzinare asetticamente parole, sensazioni, drammi e glorie di un mondo lontano nel tempo.
Lo Shimakaze salpò il giorno seguente il rinvenimento del pugnale. Grégoire Funet sbarcò nel porticciolo di Favignana simile a un naufrago che, dopo essere stato sballottato in mare per giorni, raggiunge la terraferma.
Per apparire credibili a chi li avesse osservati, gli uomini di Maru erano sempre accompagnati da due delle hostess di bordo, che contribuivano a farli sembrare un’allegra compagnia di turisti del Sol Levante, desiderosi di avventure subacquee fuori stagione. Nei giorni che seguirono e per tutta la durata del periodo di ricerca, la spedizione degli uomini del Signore delle Acque non riuscì a individuare nessun reperto: l’enorme tomba sottomarina di sabbia bianca sembrava voler centellinare i suoi segreti.
Roma imperiale, anno di Roma 807 (54 d.C.)
«Ricevo dalle mani del mio defunto padre un impero senza confini», aveva detto Nerone di fronte alla Curia gremita. «Sono troppo giovane per aver visto guerre civili e divisioni in Roma. Il mio animo è e resterà sgombro da odio e sete di vendetta. Non sarò io l’imperatore che avocherà a sé compiti propri delle istituzioni, non sarò io il solo giudice, né il solo legislatore per la nostra gente. Mi avvarrò di ogni ordinamento in questo immenso Stato che Claudio ha governato con saggezza ed equità. Voi, senatori di Roma, sarete al mio fianco. A voi spetterà il non facile compito di governare con rettitudine l’impero più grande di ogni tempo.»
Un’ovazione si alzò dagli scranni. L’abile discorso preparato da Seneca aveva colto nel segno: diceva tutto quello che ogni senatore voleva sentirsi dire. Le autonomie della Curia rappresentavano il nodo sul quale era possibile che inciampasse un giovane e inesperto sovrano. Così non fu per Nerone: dopo aver elogiato la figura del suo predecessore e patrigno, toccò le corde dei potenti e della plebe con sapiente maestria. I modi liberali del giovane sovrano che si rifaceva ad Augusto avevano conquistato la romanità.
A ogni plebeo vennero distribuiti quattrocento sesterzi: poco più di un paio di bevute, consumate augurando salute al nuovo imperatore. Ai senatori meno abbienti venne garantito un salario annuo che, in alcuni casi, raggiungeva i cinquecentomila sesterzi. Anche per i pretoriani venne stabilita un’abbondante distribuzione di frumento.
Tale era l’entusiasmo che si era creato attorno a Nerone che i sacerdoti caldei e gli indovini al seguito di Agrippina incominciarono a predire il ritorno all’età dell’oro. E Nerone fu paragonato al dio Sole.
Venne altresì deliberato dalla Curia l’innalzamento di statue in oro raffiguranti il giovane imperatore, ma il novello Cesare, con inaspettata modestia, rifiutò il tributo, chiedendo che tali fondi fossero indirizzati ove ve ne fosse bisogno.
Una mattina, Lisicrate fu convocato nelle stanze imperiali. Come sempre faceva in presenza di estranei, si rivolse a Nerone con tono formale.
Non riconobbe subito l’uomo che era al cospetto dell’imperatore. Poi osservò le mani dell’ospite che gli dava la schiena e trasalì: riconobbe l’anello di re Salomone.
«Non credo tu abbia mai salutato, Lisicrate», disse Nerone, «un uomo le cui indiscusse capacità furono assai utili a mio padre Claudio.»
Simone di Samaria si volse in quel momento. I suoi occhi danzarono per un istante dentro quelli di Lisicrate. Ancora una volta il precettore greco provò lo stesso senso di disagio provato anni prima, quando aveva dovuto indagare su Simon Mago per conto della potente setta dei sacerdoti di Osiride.
«Il tuo viso non mi è nuovo, Lisicrate. È forse possibile che ci siamo già incontrati?» chiese Simon Mago con aria dubbiosa.
«Quasi impossibile negarlo, Simone. Sono al fianco del divino Cesare da molti anni. Di certo tu mi hai visto in questo stesso palazzo», mentì Lisicrate.
«Forse…» ripeté Simone. «Forse…» L’ombra del dubbio non abbandonò la sua espressione.
Mar Mediterraneo, 1335
Le quattro donne furono alloggiate in una cabina a poppa del dromone. Nessuno, dopo l’intervento del Muqatil, avrebbe osato molestarle. Zaydun era rimasto incatenato per un giorno e una notte, solo per non aver obbedito prontamente all’ordine del condottiero.
L’emiro si recò nella loro cabina, mentre il dromone procedeva veloce verso il rifugio segreto.
«Siete venuto per usarci violenza, maledetto selvaggio?» gridò Diletta, con tutto l’odio che aveva in corpo. Poi sembrò calmarsi. «Già, credo sia inutile sprecare fiato e lacrime: un tagliagole come voi certo non può conoscere la mia lingua. Forza, avanti, che aspettate? Approfittate pure di queste quattro donne indifese.»
Così dicendo, Diletta protese il corpo in avanti.
Il volto del Muqatil si distese in un divertito sorriso.
Scandendo le parole nella lingua che ben conosceva, iniziò a parlare.
«Credo che a una nobile damigella si confaccia un più decoroso comportamento. Non avete nulla da temere, né voi, né le donne che vi accompagnano. Voi rappresentate un bottino di guerra e come tale sarete trattate. Ancora non ho deciso se verrà chiesto un riscatto o se verrete destinate a infoltire le presenze femminili al mio villaggio.»
«Chi siete? Perché parlate così bene la mia lingua?» domandò Diletta con aria meravigliata.
«È una lunga storia… una lunga storia. Chiamatemi solo Muqatil, il guerriero.»
Quel nome fu sufficiente a far scorrere un brivido di terrore nelle vene di Diletta. Lei e le sue dame di compagnia erano prigioniere del più temuto fra i pirati. Ciononostante, la giovane ebbe ancora la forza per reagire. «Vi diffido dal tenermi ancora vostra prigioniera. Mio padre, Angelo Campagnola, è un influente membro del Consiglio dei Dieci di Venezia. Quando verrà a sapere quale destino è stato riservato a sua figlia, invierà ingenti flotte per cercarmi…»
«… E noi saremo qui per riceverle», la interruppe il Muqatil, senza smettere di sorridere.
«Io vi maledico. Voi e tutti i corsari che compiono razzie obbedendo ai vostri sanguinari comandi. Maledico il vostro Dio blasfemo, la vostra terra infedele. Vi odio con tutto il mio cuore.» Due grandi lacrime solcarono il suo bel viso.
«Bene, questo vostro odio e le vostre ingiurie hanno spianato la strada e risolto ogni mio dubbio: non chiederò alcun riscatto per voi, ma resterete a mia disposizione al villaggio. In questa maniera potrò, a mio insindacabile giudizio, vendervi come schiava in qualche mercato della terra che avete appena maledetto, oppure concedervi in moglie a qualcuno degli altrettanto maledetti miei uomini. Che ne dite di Zaydun, l’uomo che ha tentato di usarvi violenza?» Gli occhi azzurri del Muqatil erano diventati due impenetrabili gemme di ghiaccio.
Alessandro Crespi fu destato di soprassalto da alcuni forti tonfi contro il portone della sua casa. Accese una lanterna e si precipitò all’uscio. Con stupore si trovò dinanzi il volto cereo di Angelo Campagnola.
«La nave…» disse il nobile veneziano, visibilmente sconvolto. «… la mia nave e l’immenso tesoro che mia figlia portava in dote. I pirati hanno preso ogni cosa e catturato Diletta e le sue dame di compagnia.»
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