Ad Agrippina venne conferito il titolo di Augusta, poi il Senato le assegnò la carica di ministro, e la città che le aveva dato i natali, poiché sua madre si trovava al seguito delle truppe comandate dal padre Germanico, venne ribattezzata come Colonia Claudia Augusta Agrippinensis. Forse per un’altra donna la devozione di un marito imperatore sarebbe stata sufficiente. Non per Agrippina. Tutto ciò che ostacolava il suo cammino veniva annientato come un fiume in piena travolge i fasci di rami. E, inevitabile, cadeva sui nemici l’ira della donna più potente di Roma.
Narcisso, il liberto che, assieme a Pallante e a Callisto, era considerato il consigliere più ascoltato dell’imperatore, venne accusato di peculato nello stanziamento dei fondi per la costruzione della galleria del Fucino. Narcisso uscì indenne dal processo, ma la sua immagine fu da quel giorno compromessa per sempre. Nel disegno di Agrippina, il liberto rappresentava il più pericoloso degli oppositori: nella guerra intestina che si era aperta tra Britannico e Nerone per la designazione a successore, Narcisso aveva parteggiato apertamente per il figlio legittimo di Claudio. Inoltre, Agrippina non avrebbe mai dimenticato l’avversità manifestata da Narcisso nel momento in cui si era trattato di scegliere la nuova sposa dell’imperatore.
Lisicrate era seduto nel banco solitamente occupato dal suo discepolo. Nerone stava in piedi di fronte a lui, nelle inusuali vesti di maestro. Vestiva la toga senatoria e accompagnava la sua appassionata orazione con ampi gesti delle mani. Di tanto in tanto, Lisicrate lo fermava, consigliandogli vocaboli più appropriati o frasi di maggior effetto. Il giorno seguente il giovane Nerone avrebbe tenuto la sua prima orazione dinanzi al Senato, perorando la causa della città di Bononia, gravemente colpita da un incendio.
Il precettore greco osservava con fierezza il suo pupillo. Il ragazzo aveva saputo apprendere ciò che di meglio i suoi insegnanti avevano da offrirgli: da Seneca aveva imparato l’eloquenza e la dialettica, da Afranio Burro le conoscenze militari, da Cherèmone le arti matematiche e astrologiche. Lisicrate gli aveva insegnato un po’ di tutto, unendo la teoria ad azioni e comportamenti che sapevano catturare la mente di un fanciullo.
In tutta la sua vita, il greco non aveva mai avuto un amico e adesso, a mano a mano che Nerone diventava adulto, si sentiva legato a lui da qualche cosa che trascendeva il normale rapporto tra maestro e allievo. Era affetto? Amicizia? Semplice devozione?
«La mia opera è ormai inutile, Nerone», aveva detto Lisicrate con una punta di amarezza, mentre il giovane, raggiante, gli raccontava come aveva catturato l’attenzione del Senato durante il proprio intervento. «Adesso saranno la vita e l’esperienza che ti faranno da maestre.»
«Ne sei convinto, Lisicrate?» aveva risposto Nerone. «Sei davvero persuaso che io non abbia bisogno di persone come te al mio fianco per intraprendere il cammino che il destino mi ha assegnato? Tra queste mura si nascondono serpi velenose e ogni stanza di questo palazzo cela un trabocchetto. Guarda, per esempio, mio fratello Britannico: continua a chiamarmi Enobarbo e lo fa con aria di superiorità, per non dire di disprezzo. Quello che oggi lui sembra non voler accettare, e cioè l’avere un fratello maggiore, domani si potrà mutare nella fredda lucidità del congiurato e del fratricida. Io voglio che tu rimanga al mio fianco e mi aiuti a navigare in questo mare in tempesta.»
«Già… navigare in un mare in tempesta», pensò Lisicrate, un mare per attraversare il quale esisteva una sola rotta che era stata tracciata da Agrippina.
E l’Augusta mandò a chiamare il greco quella stessa sera. La stanza della matrona era di dimensioni enormi. Il letto, drappeggiato con tessuti preziosi, stava quasi al centro della camera, poggiato su un basamento di granito rosso. Tutti i mobili presenti avevano mirabili decorazioni in oro e avorio. Un solo braciere ardeva in un angolo, diffondendo un chiarore tenue che a malapena riusciva a vincere la penombra.
«Mi hai fatto chiamare, mia signora?» domandò Lisicrate, inchinandosi rispettosamente.
Agrippina allontanò le ancelle con un gesto della mano e parlò: «Mio figlio mi ha riferito il colloquio che ha avuto con te, oggi. Che cosa succede, Lisicrate, non ti trovi bene in questa casa, nella casa dell’imperatore di Roma?»
«Sarebbe simile a una bestemmia affermare questo, mia signora. Ho soltanto constatato che le capacità di apprendimento di Nerone sono eccezionali e mi sono chiesto se la mia opera fosse ancora necessaria. Io sto bene qui, Augusta madre e sposa. Amo questa città e sono profondamente legato a tuo figlio.»
«E lui sembra essere altrettanto legato a te… Molte persone sembrano legate a te… Giulia Litia prima di tutte. Mi parla spesso di te con… trasporto.»
Gli occhi verdi di Agrippina brillarono per un istante, illuminati dal fuoco del braciere. La donna si spostò di qualche passo, frapponendosi tra Lisicrate e l’unica fonte di luce nella stanza. La sottile veste di lino che indossava divenne quasi trasparente, mostrando le curve del corpo nudo. I capezzoli, turgidi, sembravano voler perforare la stoffa. Lisicrate abbassò istintivamente gli occhi, mentre la donna continuava.
«Comunque ho deciso che rimarrai al fianco di Nerone: ha ancora bisogno dei suoi maestri per percorrere con onore la strada che il fato ha tracciato per lui.»
Lisicrate chinò il capo e si congedò in maniera quasi brusca: qualsiasi contatto con Agrippina, al di fuori di quelli richiesti dalle sue mansioni di pedagogo, era capace di metterlo a disagio.
Nerone, quello stesso anno, sposò Ottavia, figlia di Claudio imperatore e sorella di Britannico, la sorellastra e cugina con la quale aveva condiviso buona parte della fanciullezza. L’ascesa del sedicenne verso il trono era ormai inarrestabile.
Mar Mediterraneo, 1335
Il Bucintoro solcava lento e maestoso le acque calme del Canal Grande. I riflessi d’oro della galea ducale lanciavano bagliori, illuminati da un incerto sole primaverile.
La festa della Sensa volgeva al termine e, come ogni anno nel giorno dell’Ascensione, il doge avrebbe officiato il rito che celebrava la vittoria sui pirati Narentani dell’anno Mille.
Diletta stava in piedi accanto a suo padre, Angelo Campagnola. Vestiva in maniera sontuosa e l’abito in velluto rosso coperto da un mantello blu le scendeva lungo il corpo che aveva da poco tempo assunto forme più piene. La carnagione del viso della giovane era chiara, fatta eccezione per le guance arrossate dalla fresca tramontana: una brezza sostenuta che ancora portava con sé gli ultimi freddi del nord. Gli occhi attenti, di un blu intenso, spiccavano tra il colore delle gote e il pallore della carnagione. Un copricapo, ornato da una catena d’oro e da alcune pietre incastonate, lasciava scoperti i riccioli della fronte. Una vena di tristezza appannava lo sguardo di quella che, da molti, veniva considerata una tra le più belle ragazze di Venezia.
I quarantadue remi del Bucintoro si sollevarono all’unisono per rimanere fuor d’acqua. La maestosa nave, spinta dall’abbrivio, superò l’imboccatura del porto di San Niccolò. I notabili che occupavano il secondo ponte si fecero da parte, mentre il doge Francesco Dandolo attraversava il paiolato per la sua lunghezza, tenendo con entrambe le mani un secchio d’acqua benedetta. Quando il doge uscì sul terrazzino di poppa, versò in mare l’acqua, pronunciando una preghiera. Quindi strinse in mano l’anello consacrato dal Patriarca della città e lo lasciò cadere verso la distesa immota della laguna, accompagnando il volo della fede d’oro con queste parole: «Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio».
Nessuno si accorse di una lacrima che rigava il volto di Diletta: tra pochi giorni la giovane sarebbe partita alla volta dell’Oriente, per andare in sposa a un uomo che non conosceva, un coetaneo di suo padre al quale, in nome di superiori interessi, era stato deciso di affidare la sua meravigliosa giovinezza.
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