«Lasciateci il passo», ordinò Lisicrate con fermezza.
«Senti, senti…» proseguì il secondo, «… un villico che chiede a due nobili cittadini romani di lasciargli il passo.»
«Già, ha fretta di assaggiare il suo imberbe compagno. Ma la fretta è giusto che paghi un pedaggio.» Così dicendo, il malfattore estrasse un pugnale da sotto la tunica lercia che indossava.
«Sì, un pedaggio… E poi vedremo se è abbastanza per lasciare il passo al provinciale e al suo fanciullo», gli fece eco l’altro, mostrando un sorriso sdentato che non lasciava presagire nulla di buono. L’uomo allungò una mano adunca verso il viso di Nerone. La reazione del giovinetto fu immediata. In un istante, Lucio Domizio mise in pratica gli insegnamenti ricevuti nella lotta e nel combattimento. La sua gamba destra si sollevò con velocità, colpendo il brigante al basso ventre. L’uomo si piegò in due e il ragazzo gli serrò le braccia con una sapiente mossa. Il rumore secco di un osso che si spezzava echeggiò tra le strette pareti della via.
Lisicrate si scansò di lato, vanificando l’assalto dell’altro malvivente. La lama del coltello sfiorò le vesti del precettore e, subito dopo, travolto dal suo stesso impeto, il corpo dell’assalitore cadde di fianco al greco. Un pugno serrato si abbatté sulla nuca del compare.
Dopo essersi accertato delle condizioni del suo protetto, Lisicrate fece cenno a Nerone di riprendere il cammino. Fianco a fianco, proseguirono nella loro escursione come se nulla fosse successo. Quell’episodio sarebbe rimasto un segreto tra di loro. Forse il primo dei molti che avrebbero condiviso.
Mar Mediterraneo, 1334
La Repubblica di Venezia era una grande potenza coloniale, comprendente tutte le Cicladi e gran parte dell’arcipelago egeo. I suoi commerci, particolarmente attivi con l’Oriente, potevano contare su una serie di porti attrezzati che andavano dalla Dalmazia, passando per Costantinopoli, sino al mar Nero. Le cruente guerre con Genova per il predominio sul Mediterraneo non avevano indebolito seriamente la potenza dei sudditi del doge. Era piuttosto l’insicurezza dei mari, al di là degli scontri con i genovesi, a minacciare l’espansione dei traffici veneziani. I pirati che infestavano ogni rotta sembravano invincibili e, nonostante le flotte allestite e armate con il solo scopo di sconfiggerli, i bottini trafugati dai mori si facevano sempre più consistenti.
La nave di Angelo Campagnola ormeggiò nell’isola di Sant’Erasmo, a poca distanza da quella di Murano. Lì il mercante veneziano insistette affinché Crespi e i due orientali prendessero posto assieme a lui sull’imbarcazione che li avrebbe condotti al centro della città, per poi proseguire verso il suo palazzo.
«Oggi è il giovedì di carnevale, il vostro amico orientale avrà di che stupirsi degli usi dei nostri concittadini!» aveva detto Campagnola rivolto a Crespi.
Piazza San Marco era un brulicare di persone e l’assembramento pareva ancor più fitto nei pressi di una zona dei portici. Da lì provenivano il latrare dei cani e altri grugniti di animali che né Crespi né Hito Humarawa riuscirono sulle prime a riconoscere.
«Il portale della basilica è adornato con i quattro cavalli in bronzo portati qui da Costantinopoli. Si dice che appartenessero a un imperatore della Roma antica», spiegava Crespi a Humarawa, descrivendo le bellezze della piazza, da sempre centro della vita cittadina. «Anche la pala d’oro che vedi sopra il portone è arrivata da Costantinopoli più di tre secoli fa. Raffigura il figlio del nostro Dio e la Vergine Maria, sua madre. È incastonata con mille e trecento perle, tremila zaffiri e quindici rubini di grossa caratura.»
Fu allora che le urla che si levarono non furono più sufficienti a coprire l’abbaiare dei cani. Almeno un centinaio di maiali, aizzati dagli stessi cani, correva all’impazzata, dimostrando agilità impensabili per animali di quella stazza. Al cenno di un giudice, gli uomini iniziarono la caccia armati di coltelli e scuri. In breve, l’intera piazza si trasformò in un orrendo mattatoio, mentre i maiali sopravvissuti scivolavano sul pavimento in mattoni disposti a spina di pesce, lordo del sangue dei loro consimili.
Ogni volta che un suino veniva abbattuto, la gente vi si gettava sopra come un branco di avvoltoi su una carogna, tagliando e strappando brandelli dell’animale, spesso ancora vivo.
L’enorme Wu, eccitato dallo spettacolo, si era lanciato nella mischia. Con la sola forza delle braccia aveva affrontato un maiale inferocito e lo aveva atterrato tra lo stupore dei presenti.
La ferita alla guancia, provocatagli da Crespi anni prima, sembrava il naturale proseguimento del suo inquietante sorriso, mentre, con un quarto di porco sanguinolento sulla spalla, si univa nuovamente a Crespi e a Humarawa, e al loro accompagnatore.
Novembre 2001
Bruno Milano guardò fuori dalla finestra del suo ufficio, nella sede dell’ambasciata israeliana a Tokyo.
Un pallido sole non riusciva a sollevare la città da un persistente senso di grigia oppressione: la capitale accoglieva i suoi abitanti con lo stesso calore con cui un formicaio accoglie le formiche. A questo stava pensando il giovane ufficiale del Mossad, quando il ricordo del dolce viso di Bushido gli illuminò la mente. L’unica cosa gradevole che aveva incontrato in quella metropoli corrispondeva al principale scopo della sua missione.
Purtroppo, per ragioni di sicurezza, quel giorno aveva scelto di delegare a un altro agente il contatto con la giovane segretaria della Water Enterprise. Un avvicendamento tra gli emissari incaricati di raccogliere le informazioni era una buona prassi e il Mossad teneva più di ogni altra cosa ai propri agenti che agivano sotto copertura.
Kuniko Sagashi guardò l’orologio con impazienza: mancavano poco più di cinquanta minuti al termine del suo orario di lavoro. Con una punta di vanità femminile aprì la borsetta e contemplò il proprio viso nello specchietto pieghevole. Aveva un’espressione soddisfatta: con buone probabilità avrebbe rivisto il bel giovane israeliano e quasi certamente non lo avrebbe deluso.
Kuniko era sola nella grande sala adibita a segreteria personale del presidente. Una delle linee riservate prese a trillare.
«Segreteria personale di Yasuo Maru sama », rispose Kuniko con voce cortese.
Una voce di donna altrettanto gentile, resa un po’ roca dal fumo di molte sigarette, disse all’altro capo della linea: «Sono Genji Enshigoju, dovrei parlare personalmente col presidente Maru».
«Sono spiacente, signora, il signor Maru sarà assente per i prossimi dieci giorni. Se vuole lasciare un messaggio, sarà mio dovere consegnarlo a Yasuo Maru sama al suo ritorno.»
«No, non fa nulla… Anzi, se può solamente riferire che ho chiamato, lui capirà.»
Quella era stata, a memoria di Kuniko, l’unica telefonata ricevuta dal suo capo che all’apparenza non riguardasse il lavoro. Si impresse nella mente il nome della persona che aveva chiamato, dopo averlo diligentemente annotato tra quelli delle telefonate pervenute, e continuò ad aspettare con ansia la fine della giornata di lavoro.
Sara Terracini ascoltò con attenzione l’ammiraglio Grandi, mentre le riferiva telefonicamente il cambio di programma, indispensabile dopo quanto era successo: l’omicidio del giovane marinaio del C’est Dommage richiedeva assoluta cautela. Quando Sara ripose il ricevitore era stranamente calma: come se già si aspettasse che quella storia avrebbe potuto trascinarla in una nuova e pericolosa avventura. Poche altre volte aveva provato lo stesso brivido che le era salito lungo la schiena scorrendo le prime righe del papiro. E ognuna delle precedenti situazioni simili a quella l’aveva condotta in un mare di guai. Mancava solo una pedina, sempre presente quando c’erano guai in giro… Chissà se Oswald Breil aveva letto il suo messaggio di congratulazioni.
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