Il giovane precettore greco non cessava mai di stupirsi della lungimiranza di Agrippina e dei mezzi che la donna sapeva utilizzare per ottenere ciò che voleva. Sembrava che nulla potesse frapporsi alle sue ambizioni.
Pochi giorni prima delle nozze, Lisicrate ricordava di aver carpito una conversazione tra Seneca e la sua bella padrona.
«Non trovi che il fidanzamento tra Ottavia e il senatore Lucio Sillano sia quantomeno prematuro?» aveva chiesto il filosofo con fare insinuante. «La figlia di Claudio è senza dubbio un buon partito, forse troppo buono per finire accasata con un patrizio qualsiasi. Non mi dispiacerebbe se, un domani, potesse essere sposa di tuo figlio.»
«Riesci sempre a leggere nei miei pensieri, Seneca», aveva risposto Agrippina. «Anche se credo che le cose siano ormai troppo mature per porvi rimedio: Claudio ha consegnato a Sillano le insegne del trionfo per il fidanzamento con Ottavia.»
«Mi stupisce che la promessa sposa dell’imperatore si arresti dinanzi a una difficoltà così banale… Sembra che il tuo futuro genero Lucio Sillano sia molto ma molto legato a sua sorella Giunia…»
Quella frase del filosofo fu sufficiente.
Nello stesso giorno in cui Agrippina e Claudio convolavano a nozze, Lucio Sillano si uccideva, non potendo sopportare le infamanti accuse di incesto con la sorella che gravavano su di lui.
Apparentemente, Lucio Domizio veniva appena sfiorato da queste trame e dagli oscuri disegni della madre, ma la sua pronta intelligenza gli permetteva di capire che, attorno a lui, il ragno stava tessendo la tela.
La cerimonia con la quale il giovane divenne figlio adottivo di Claudio fu sfarzosa, come ogni cosa nella quale era coinvolta Agrippina. A Lisicrate non sfuggì la situazione che si era venuta a creare: con l’adozione, Lucio Domizio era diventato a tutti gli effetti il primogenito dell’imperatore e quindi colui che naturalmente sarebbe stato destinato a succedergli. Britannico e Ottavia, i figli avuti da Claudio con Messalina, avevano rispettivamente sei e quattro anni.
«E ora, figlio mio», aveva detto l’imperatore ad alta voce, in modo che ognuno dei presenti alla solenne cerimonia potesse udirlo, «conformemente alla volontà mia e a quella della tua Augusta madre, ti conferisco il nome di Nerone Claudio Druso Germanico. Sappi portare con onore i nomi dei tuoi valorosi avi.»
Agrippina era raggiante. I suoi occhi verdi si posavano su quelli di molti dei presenti. Il suo sguardo era fiero. In alcuni casi, come nei confronti del potente liberto Narcisso, carico di sfida: anche colui che si era opposto al suo matrimonio per favorire Elia Petina, già moglie ripudiata dello stesso imperatore, avrebbe dovuto d’ora in poi misurarsi con lei.
Entrambe le prove d’amore ricevute quel giorno dal marito erano consistenti: Lucio era adesso il potenziale successore all’impero e lei stessa poteva, per volere di Claudio, fregiarsi del titolo di Augusta.
Lisicrate osservò la grossa testa dell’imperatore chinarsi verso quella di Agrippina e udì l’uomo più potente della terra proferire una frase che somigliava a una solenne promessa: «È solo l’inizio, mia amata. Ho intenzione di fare pressioni sul Senato affinché deliberi la concessione della toga virilis a Nerone con congruo anticipo rispetto ai quindici anni di età. L’intelligenza di tuo… di nostro figlio merita senza dubbio un premio. Voglio altresì designare Nerone a rivestire il consolato al compimento del ventesimo anno di età». Gli occhi dell’imperatore si persero dentro quelli, bellissimi, della moglie. Avessero potuto emettere delle fiamme, quelli di Agrippina avrebbero sprizzato vampe di fuoco.
Lisicrate si trovò a riflettere su quanto un uomo giusto e sensato come Claudio, che inaspettatamente si era anche rivelato un buon governante, si trovasse del tutto inerme di fronte allo sguardo di una donna.
La promessa andò a buon fine: all’inizio dell’anno seguente, con celebrazioni ancora più sontuose di quelle che avevano accompagnato la cerimonia di adozione, Nerone abbandonò la toga orlata di porpora e la bulla , il ciondolo d’oro raffigurante una bolla d’acqua. Il giorno seguente, indossato l’abito tessuto in lana bianca, si presentò in Senato accompagnato dal padre adottivo.
Gli uomini più potenti di Roma facevano a gara nel profondersi in elogi verso quel giovinetto sveglio e intelligente, destinato a succedere a Claudio nella conduzione dell’impero.
Sotto la statua della Vittoria Alata conquistata ai tarantini, che Augusto aveva voluto fosse collocata all’interno della Curia, Nerone ricevette dai senatori entusiasti la designazione di console quando avesse compiuto vent’anni, l’immediato conferimento dell’autorità proconsolare e il titolo di princeps iuventutis. Claudio, nei giorni successivi alla cerimonia, elargì regalie in denaro ai soldati e ordinò distribuzioni di grano per la plebe. Vennero organizzati numerosi giochi al circo, aperti dallo stesso Nerone che sfilò indossando la veste trionfale, mentre dietro di lui veniva il figlio legittimo di Claudio, Britannico, che vestiva la toga puerilis.
Era la prima volta che Lisicrate si recava al circo. La folla che scandiva il nome di Nerone ebbe il potere di accendere un tremito nelle sue membra.
All’interno del Circo Massimo c’erano almeno centocinquantamila persone e tutti, all’unisono, stavano gridando il nome di chi, alla morte di Claudio, avrebbe retto le sorti dell’impero. Certo, una morte prematura dell’imperatore avrebbe di fatto consegnato Roma e i suoi sconfinati territori nelle mani di Agrippina, quale tutrice del figlio. Quelle riflessioni si affacciarono per un istante nella mente di Lisicrate. Ma il giovane greco aveva ormai imparato a non farsi sorprendere dalla lungimiranza e dalla spietatezza di quella donna. Rimase a osservarla mentre percorreva la pista sulla quale si sarebbero disputate di lì a poco le corse dei carri. La quadriga trainata da splendidi puledri bianchi era ormai leggendaria in tutta la città e adesso avanzava con incedere solenne. Agrippina stava in piedi al centro del carro. Era bellissima e i numerosi gioielli d’oro che era solita indossare rifulgevano alla luce del sole.
Lisicrate sapeva bene che dietro quella messinscena, creata ad arte per sminuire la figura di Britannico ed esaltare quella di Nerone, c’era, come sempre, l’attenta regia dell’Augusta.
Mar Mediterraneo, 1334
La cocca veneziana dondolava pigramente e la bonaccia seguita alla tempesta sembrava non voler abbandonare la distesa immobile del mare. Si trattava di una nave stabile e con ottime capacità di carico, ma inesorabilmente lenta. Sia la vela quadra dell’albero di maestra sia quella di mezzana pendevano flosce come drappi di stoffa esposti ad asciugare al sole. Poi, improvviso come era calato, il vento ricominciò a soffiare, teso, dal lato di poppa. La paura si diffuse a bordo quando le due vele apparvero all’orizzonte e diventò panico quanto più i due velieri si avvicinavano.
«Sembrano due piccoli badan arabi», disse Angelo Campagnola rivolto ad Alessandro Crespi. «Sono le barche utilizzate dagli infedeli per scorrerie piratesche su navi isolate o malamente difese. Non credo che a bordo di ciascuna si possano trovare più di venti uomini. Ma bastano per catturare la nostra nave.»
«Che cosa sta dicendo?» Hito Humarawa chiese con garbo a Crespi di tradurre le parole del potente veneziano.
«Quanti uomini in grado di maneggiare armi abbiamo a bordo?» chiese ancora il samurai, dopo aver ascoltato la pronta traduzione del mercante.
«Esclusi i quattro militari della mia guardia personale, credo che non possiamo fare affidamento su nessun altro: gli uomini dell’equipaggio sono dei validi marinai e qualcuno ha dimestichezza con l’uso delle armi, ma non sono certo addestrati per respingere un arrembaggio da parte di pirati sanguinari», rispose il Campagnola scuotendo il capo.
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