Kuniko era in piedi dinanzi alla fotocopiatrice. Su un tavolo aveva appoggiato le oltre trenta pagine che doveva riprodurre: molte di queste riguardavano gli appuntamenti concordati nella fitta agenda di Yasuo Maru durante il suo soggiorno in Europa. Come faceva sempre, la giovane scelse i fogli che riteneva di maggiore interesse per la sua indagine ed eseguì una copia in più di ciascuno. Avrebbe poi selezionato ulteriormente le notizie contenute, una volta raggiunta la sua abitazione.
Taka la seguì con lo sguardo quando, terminato il lavoro, si allontanò dalla fotocopiatrice e, preso il cappotto, lo salutò gentilmente: la nuova ragazza sembrava in gamba… troppo in gamba. Forse per questo motivo il segretario particolare del presidente nutriva una certa diffidenza, quasi epidermica, nei suoi confronti.
Kuniko uscì nella fredda sera di Tokyo. Le auto stavano in coda nel traffico della città. Scese nella metropolitana e attese il treno. In pochi minuti avrebbe raggiunto la sua abitazione e sarebbe riuscita a mettere ordine fra le carte trafugate dall’ufficio.
Taka era rimasto solo. Compose un numero interno e, qualche istante più tardi, il capo del servizio di sicurezza della Water Enterprise era dinanzi a lui.
«Continuo a non fidarmi di quella ragazza», disse il segretario del presidente all’uomo che gli stava davanti.
«Abbiamo già scandagliato la vita privata di Kuniko Sagashi, senza che emergesse nulla di sospetto nei suoi confronti: è una ragazza tutta casa e lavoro. L’unica sua evasione è costituita dal sostenere i pochi esami rimasti all’università: sta per laurearsi in ingegneria elettronica», rispose il capo della sicurezza.
«Conosco a memoria il suo curriculum, come quello di tutti i miei dipendenti diretti. Tu comunque non abbandonare la sorveglianza. Non so, è una sensazione… ma Kuniko Sagashi continua a non piacermi.»
Sara Terrracini trovò la voce calda e sensuale: parlava in perfetto italiano e la cadenza francese riempiva di piacevoli intonazioni le parole che l’uomo stava pronunciando al telefono.
Sara ricordava che la terribile vicenda di Henry Vittard aveva riempito, tempo addietro, le pagine di ogni giornale. E le sembrava di ricordare anche che l’aspetto del navigatore fosse indubbiamente attraente. Ma non riusciva a delineare con precisione il volto di chi, in quell’istante, le stava parlando al telefono.
«Mi coglie in un momento un po’ complicato, signor Vittard», aveva detto Sara in maniera gentile. «Ma sarà comunque un piacere per me visionare i reperti e cercare di darle una mano. Se proprio dovessi vedere che si tratta di un carico di lavoro che non posso assumermi, potrei senz’altro farle il nome di qualche mio collega che potrà esserle d’aiuto.»
«La ringrazio, dottoressa Terracini. Come le ho spiegato, credo si tratti di un ritrovamento importante.»
«Naturalmente, signor Vittard…» rispose Sara, senza reprimere un sorriso: non aveva mai sentito nessuno giudicare poco importante una scoperta di oggetti antichi. «Che ne dice se ci vedessimo nel mio laboratorio dopodomani in mattinata?»
Roma imperiale, anno di Roma 802 (49 d.C.)
«… Perché Pitagora credeva nella metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, e considerava i baccelli alla stregua di feti in procinto di reincarnarsi», aveva risposto Lisicrate, convinto di aver saziato la sete di conoscenza del suo giovane allievo.
I ritmi della vita all’interno della residenza di Agrippina non erano faticosi, non certo per il più giovane tra i precettori di Lucio Domizio: tre giorni a settimana prendeva in consegna il piccolo nelle prime ore del mattino e restava in sua compagnia fino al prandium , a metà giornata, tra l’ora sesta e la settima. Per i rimanenti quattro giorni, Lisicrate subentrava nell’aula a Seneca o a Cherèmone verso fine mattinata, consumava un frugale pasto in compagnia del discepolo e restava con lui quasi fino a sera.
«Sai che non vedo l’ora che tu venga a sostituire i miei anziani maestri, Lisicrate?» gli aveva confidato un giorno Lucio Domizio.
«Perché dici questo?»
«Perché sanno soltanto tenermi curvo sulle tavolette di cera a scrivere di matematica, filosofia e diritto. Con te è diverso, quello che tu mi insegni è più bello e sono davvero poche le giornate che mi fai trascorrere in aula a fare cose che non mi serviranno mai.»
«Su questo sei in errore, Lucio Domizio. La tua formazione deve passare attraverso la più vasta conoscenza possibile. E i tuoi insegnanti sono considerati i migliori. Un giorno capirai che l’arte oratoria, la conoscenza delle lingue e la loro padronanza sapranno aprirti strade altrimenti precluse.»
«Già, ma i precettori passano il tempo a farmi misurare acri di terreno o a raccontarmi di visioni stoiche della vita. Nessuno di loro, né Cherèmone, né tanto meno Seneca, mi ha mai insegnato come si impugna una spada o si para un fendente. E Afranio Burro, che sarebbe deputato a insegnarmi l’arte militare, trascorre ore e ore a raccontarmi nei minimi particolari gli schieramenti degli eserciti durante epiche battaglie. Nessuno, a parte te, Lisicrate, è mai salito con me su una biga, lasciandomi in mano le briglie. Nessuno mi ha mai parlato delle macchine di Erone di Alessandria che, come per magia, facevano aprire le porte del tempio. Ma tu… tu sei davvero in grado di costruire una macchina simile?»
«Non lo so, Lucio Domizio… Forse…»
«Quando diventerò grande voglio che tu costruisca per me macchine che lascino a bocca aperta gli ospiti dei miei banchetti», disse il fanciullo con gli occhi sognanti.
Era notte fonda quando la mano di Giulia Litia accarezzò lo stipite della porta di Lisicrate. Alla penombra delle lanterne, la dama di compagnia di Agrippina scivolò nella stanza. La luce non era abbastanza tenue per celare l’espressione raggiante che Giulia aveva dipinta in volto.
«Un pretoriano ha ucciso Messalina che si era rifugiata nei giardini di Lucullo. Pare che l’imperatore Claudio, avvertito della morte della moglie mentre partecipava a un banchetto, non abbia accennato la minima reazione», aveva sussurrato Giulia.
«In tal modo, Claudio mette a tacere gli oppositori che contavano sulla dissolutezza di sua moglie per far serpeggiare il malcontento», rispose Lisicrate dopo un istante di riflessione.
«Già… E la faccenda potrebbe avere risvolti interessanti per questa stessa casa. È importante che l’imperatore si presenti al popolo e al Senato con un’immagine ripulita, con una moglie saggia ed equilibrata, che sappia fare da madre ai suoi figli Ottavia e Britannico. Roma deve sapere che il disonore è ormai lontano dalle stanze di Claudio. E deve farlo in fretta, prima che qualche oppositore organizzi una congiura.»
«Comincio a intravedere il bandolo. Continua.»
«Agrippina è tra le pretendenti a convolare a nozze con Claudio. Come sempre, l’imperatore si avvarrà dell’ultima parola dei fidati liberti. Narcisso, che ha gestito l’allontanamento e l’assassinio di Messalina, propende per una giovane patrizia. Pallante, invece, è favorevole alla mia signora. Staremo a vedere.»
«Ma la romanità non punisce i rapporti tra parenti stretti?»
«Non è poi una parentela così prossima: Agrippina non ha quasi mai frequentato suo zio… E comunque, Lisicrate, ricordati che, quando un potente desidera una cosa, pur di ottenerla riesce a modificare usanze e leggi.»
Gli occhi di Giulia si posarono sul petto nudo del giovane. Le ombre delineavano le sensuali curve dei muscoli.
«Ho voglia di te», disse Giulia, guardandolo intensamente negli occhi.
Lisicrate osservò quel volto, solcato da rughe leggere. Giulia, sul cui fisico il tempo era trascorso inspiegabilmente in fretta, aveva ora un’espressione da bambina. Per Lisicrate rappresentava un’ancora di salvezza, un’amica con cui confidarsi, una madre da cui correre nel momento del bisogno, un’esperta compagna con la quale abbandonarsi agli istinti. Lisicrate si alzò lentamente dal letto. Il suo corpo nudo brillò alla luce, perfetto come una scultura.
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