Alcune voci di bambini gli giunsero alle orecchie, mentre il greco si incamminava lungo i giardini perfettamente curati che, protetti da un alto muro di cinta, facevano parte della residenza di Agrippina.
In una piazzola circondata da piante secolari, Lisicrate scorse due giovanetti quasi coetanei, attorniati da altri bambini. I due maschi si stavano affrontando in un duello che poco assomigliava a un gioco: brandivano delle spade di legno e si scagliavano l’uno contro l’altro con foga.
«Adesso hai finito di vivere», disse il ragazzino dai capelli rossi, puntando la lama di legno alla gola dell’avversario, dopo averlo disarmato.
Improvvisamente i fanciulli si accorsero che qualcuno li stava osservando. Il duellante sconfitto dalla foga dell’avversario si alzò da terra, spolverandosi le vesti con il palmo della mano.
«Chi sei?» chiese il vincitore con aria severa.
«Mi chiamo Lisicrate e sono stato chiamato qui dalla lontana Alessandria da Agrippina.»
«Così tu saresti il mio nuovo maestro?» disse il ragazzino dai capelli rossi, osservando Lisicrate con uno sguardo ammirato.
«Sono il tuo nuovo maestro se tu sei Lucio Domizio Enobarbo», rispose Lisicrate e, mentre il piccolo annuiva, continuò. «Mi complimento con te per la tua scherma, Lucio Domizio. Ho visto che sai maneggiare molto bene la spada e hai ridotto all’impotenza il tuo avversario, anche se non sembrava alla tua altezza nel combattere. Credo comunque che le vostre tecniche possano essere migliorate e penso di potere esservi d’aiuto, se ne avete voglia.»
«Davvero tu sei in grado di insegnarci a combattere, Lisicrate?» domandò Lucio Domizio con occhi sognanti.
Il precettore greco annuì e il ragazzino si lasciò andare a uno sfogo: «Finalmente qualcuno capace di farmi apprendere cose utili! Sono stanco di quei vecchi insegnanti che pensano solo alla filosofia o alla matematica».
«Discipline che sono importanti, ricordalo. Comunque, venite qui: innanzitutto dovete imparare come si impugna una spada…»
I fanciulli fecero capannello attorno al nuovo maestro brandendo le loro armi di legno.
Lisicrate osservò il suo discepolo: aveva gli occhi azzurri e intelligenti e un fisico sano e forte. Non era alto, ma il busto, ancora acerbo, poggiava su gambe solide e possenti.
Lisicrate si sentì attratto dalla forza di quegli occhi, e provò soddisfazione nell’ottenere l’attenzione del giovane Lucio Domizio, appena undicenne. Sapeva che era il primo passo per conquistare la fiducia del suo discepolo. Ebbe un presagio: sentì che quello che sarebbe accaduto da quel momento in poi non sarebbe mai rientrato nelle normali esperienze di vita di un uomo.
In quel preciso istante, decise che avrebbe dovuto lasciare traccia della sua vita per chi sarebbe venuto dopo di lui perché questa vita sarebbe stata unica e irripetibile.
Isole Egadi, ottobre 2001
Grandi e Vittard avevano estratto con mano tremante ciascuno dei dieci papiri dall’anfora. Ogni volumen era costituito da un lungo foglio di papiro arrotolato, alle cui estremità erano state fissate delle bacchette in osso per facilitarne la lettura. Ciascuno dei rotoli era avvolto da un foglio di pergamena, la paenula , che, incollata al primo foglio, aveva lo scopo di proteggere l’intero volume. E, a giudicare dallo stato di conservazione dei reperti, la mancanza d’aria nell’anfora stagna e le cure che lo sconosciuto autore aveva prestato alla sua opera secoli prima avevano ottenuto ottimi risultati: alcuni dei cordoncini che assicuravano i titula , piccole etichette in pelle legate alle bacchette d’osso per identificare il contenuto del rotolo, erano ancora in ottimo stato. Soltanto la pergamena delle paenulae appariva irrimediabilmente compromessa, in alcuni casi.
«C’è ancora qualche cosa», disse Grandi, piegando con cautela l’anfora. Pochi istanti più tardi la mano dell’ammiraglio usciva dal collo del contenitore stringendo un cofanetto in avorio intarsiato dalle bordature in oro, non più lungo di una ventina di centimetri. Grandi osservò per alcuni istanti le figure che un mirabile incisore aveva ricavato dall’avorio: rappresentavano una donna che si incontrava con un uomo accompagnato da due soldati. I militari che scortavano l’uomo non vestivano uniformi da legionari e il profilo crestato dei loro elmi faceva pensare piuttosto a guerrieri di epoca greco-antica.
Grandi sollevò lentamente il coperchio, fece ruotare i cardini, anch’essi realizzati in oro massiccio e ancora perfettamente efficienti. Il nodo di Iside in diaspro rosso rifletté la luce dei faretti alogeni nel salotto del C’est Dommage.
L’oggetto aveva una lunghezza di circa quindici centimetri e una larghezza massima di dieci. Poteva sembrare una croce, i cui bracci laterali erano piegati verso il basso e la cui sommità era costituita da un foro simile alla cruna di un ago, grande circa quanto un occhio umano.
«Un Tjet , detto altrimenti nodo di Iside», spiegò Vittard quasi senza esitazione, dopo aver preso in mano il reperto. «Un oggetto abbastanza comune nell’antico Egitto, soprattutto tra la classe sacerdotale. Si credeva che questo talismano fosse in grado di porre il proprietario sotto la tutela della dea.»
Grandi guardò il suo compagno d’avventura con un’espressione raggiante.
«Con le dovute cautele, perché non proviamo a srotolare un papiro?» propose l’ammiraglio.
«Non siamo attrezzati per un’operazione del genere: corriamo il rischio di compromettere lo stato di conservazione dei manoscritti. Questi lavori devono essere eseguiti in opportuni laboratori, con la necessaria esperienza e con i mezzi adatti per non rovinare i fogli.»
Il trillo del telefono di Henry ruppe la quiete della notte di tramontana.
«Ciao, Henry, ho chiamato per avere tue notizie…»
La voce di Grégoire Funet giunse forte e chiara attraverso l’altoparlante dell’apparecchio cellulare. Vittard non lasciò trasparire la sua sorpresa: dai tempi dell’università non ricordava che il suo compagno di studi gli avesse mai telefonato.
«Va tutto bene, Grégoire, ti ringrazio.»
«E le tue indagini neroniane come procedono?» incalzò il funzionario della sovrintendenza francese.
«Un pugno di mosche, Grégoire. L’unica soddisfazione viene da una serie di splendide immersioni nel Mediterraneo…» mentì Vittard.
«Non siete riusciti a tirare su nulla?»
«Nulla, se non un cronografo svizzero con movimento al quarzo, una montagna di lattine di bibite e il medaglione contenente l’incisione medievale che hai esaminato.»
«Peccato; comunque… di qualsiasi cosa avessi bisogno…»
«Sì, ti sono grato, Grégoire… Anzi, il mio compagno di ricerche vorrebbe chiedere l’opinione di quella ricercatrice… Come si chiama?… Sara Terracini… Su alcuni reperti in suo possesso da molto tempo… Tu in che rapporti sei con lei?»
«Non sono in confidenza: qualche incontro casuale a congressi o seminari, una corrispondenza per un reclamo, e nulla di più. Se vuoi, l’ammiraglio può rivolgersi direttamente a me: mi sono liberato da molti dei miei impegni.»
Vittard cercò di ignorare il brivido che sentì corrergli lungo la schiena. Era sicuro di non aver mai menzionato l’ammiraglio Grandi con Grégoire Funet.
Con un commiato veloce chiuse la comunicazione e si rivolse al compagno.
«La cosa comincia a farsi interessante. C’è gente che è a conoscenza delle nostre mosse più di quanto non possiamo immaginare. Se Funet non ha mentito, Sara Terracini può essere la persona che fa al caso nostro. In ogni modo direi di essere prudenti. Qualora accettasse di darci una mano, potremmo farle vedere soltanto uno o due papiri… Se poi ci renderemo conto che possiamo fidarci di lei, le affideremo il resto delle ricerche.»
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