Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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«Se tutto procede come dovrebbe, avvertiremo le autorità non appena avremo in mano indizi più concreti. Anche se non garantisco alcuna risposta immediata da parte della sovrintendenza italiana. Comunque, adesso andiamo avanti, ammiraglio, e si prepari a degustare l’ottimo garum », disse Henry valutando lo stato di conservazione del sigillo.

«Spero che le sue supposizioni siano errate e che, invece di pesce macerato nel sale, potremo assaggiare un buon bicchiere di vino invecchiato… in un’anfora subacquea per duemila anni.»

L’anforisco era stato realizzato nello stesso materiale dell’anfora e la pozzolana mista a resine che vi era stata pigiata per sigillare aveva retto così bene al tempo che Vittard, dopo aver provato inutilmente a estrarre il tappo, aveva deciso di forzarlo per verificare il contenuto. Quando il piccolo scalpello usato dallo skipper riuscì a scalfire un angolo della chiusura, l’aria penetrò nel contenitore di cotto con un sibilo.

«Pare che le leggi della fisica siano venute in nostro aiuto: per effetto della pressione e chissà quale altro fattore, il contenuto dell’anfora sembra essere rimasto sotto vuoto per tutto questo tempo.»

Un istante più tardi il tappo veniva rimosso e la sorpresa dei due uomini fu grande quando, invece che di fronte a una sostanza liquida, Vittard e Grandi si trovarono dinanzi a una serie di oggetti che una mano, un paio di millenni prima, aveva inserito in bell’ordine all’interno dell’anfora.

Il mirino della telecamera a raggi infrarossi diffondeva un alone verde fluorescente attorno all’occhio dell’operatore. La coppia di giapponesi stava adagiata nei pressi di uno scoglio, nascosta dalla fitta oscurità che era scesa da qualche ora sulla scogliera di punta Marsala. La donna aveva un’espressione soddisfatta dipinta sul volto: lo zoom digitale del prezioso strumento che stava maneggiando riusciva a riprendere con soddisfacente qualità la scena che si stava svolgendo a trecento metri di distanza, nel pozzetto di poppa del C’est Dommage.

Matsue, Giappone, 1333

La nuova visita del Grande Generale Ashikaga era stata annunciata con poche ore di preavviso e il daimyo Humarawa non era riuscito a preparare il solito comitato di accoglienza. In preda all’agitazione, si chiedeva quali motivi di così grave importanza spingevano il suo signore, ormai destinato a diventare shogun del Giappone, a quella visita improvvisata.

Hito Humarawa non dovette attendere a lungo per conoscere le ragioni che avevano portato il Grande Generale a incontrarlo.

«Nella recente udienza che l’imperatore Go-Daigo mi ha concesso, l’argomento che abbiamo affrontato, come puoi ben immaginare», aveva esordito Ashikaga, «è stato quello della mia nomina a shogun. Tu sai, Hito Humarawa, quale sembra essere la sola resistenza dell’imperatore?»

«Quale, Generale?» disse Hito, che già prevedeva la risposta.

«Go-Daigo sostiene che io sia circondato da persone di dubbia moralità. Ha espressamente fatto il tuo nome. L’imperatore ritiene di essere in possesso di prove per incriminarti come mandante delle razzie piratesche. Presto giungeranno qui alcune guardie imperiali con l’ordine di arrestarti e io non posso fare nulla per esserti d’aiuto. Il bushido , il codice d’onore di ogni samurai, prevede una sola cosa da fare, di fronte a un’onta così grande.»

Hito Humarawa chinò il capo. Sapeva quello che ogni buon guerriero doveva fare di fronte alla vergogna. Mai avrebbe rivelato che il principale beneficiario dei bottini razziati dai wako altri non era se non lo stesso Ashikaga, nemmeno di fronte alla tortura o alla morte.

Il Grande Generale si congedò in fretta da lui, non senza essersi accertato che due dei suoi guerrieri rimanessero a fianco del daimyo. A loro spettava il compito di verificare se Humarawa avesse compiuto l’estremo gesto suggeritogli.

Alessandro Crespi era rimasto in trepidante attesa di conoscere il motivo della visita di Ashikaga. Quando vide il generale allontanarsi dal castello di Matsue, si affrettò per raggiungere le stanze di Humarawa. L’espressione del daimyo era, come sempre, glaciale, anche se una profonda ruga di preoccupazione gli solcava la fronte.

«L’onta del disonore non potrà travolgermi, Alessandro», disse Humarawa con aria severa. «Ogni samurai sa che cosa deve fare in occasioni come questa.»

Il daimyo si diresse verso un piedistallo in legno e avorio ove erano adagiate due spade, il daisho. Si inchinò non appena ebbe impugnato la spada rituale. Si trattava di un’arma ben più corta della katana e apparteneva alla famiglia degli Humarawa da molte generazioni. Nessuno di loro l’aveva mai usata, dato che, a memoria d’uomo, nessuno degli Humarawa era mai stato colpito dal disonore.

«Che cosa vuoi fare, Hito?» gli chiese Crespi che aveva capito le intenzioni del daimyo.

«Ogni samurai deve vivere e battersi, ma soprattutto morire, con onore e darsi la morte per il bene del proprio signore. Sono pronto a conservare la mia memoria. Soltanto il sacro seppuku potrà salvaguardare il mio nome», dichiarò Humarawa esaminando il taglio della lama.

«Ma di quale disonore stai parlando? Dovrebbe essere il tuo generale a sentire quel peso sopra di sé: io conosco l’entità dei bottini che sono finiti nelle sue avide casse. Dovrebbe essere Ashikaga a ricorrere al hara kiri e non certo tu che hai agito solo nel suo interesse. La tua morte non solleverà il tuo nome dal fango, ma lo condannerà per sempre al disonore. Ascoltami, Hito, ho previdentemente inviato una staffetta al porto: c’è una nave pronta a salpare e condurci al rifugio dei fedeli wako. Lì potrai decidere se sia il caso di toglierti la vita.»

«Mio buon amico… Ti ringrazio per le tue premure. Ma come potrei vivere macchiato dall’onta del disonore in questo paese?»

«E chi ha mai detto che tu debba restare in Giappone? Hai enormi ricchezze: in poco tempo io sarei in grado di riporre una fortuna in gemme e gioielli dentro uno scrigno, se tu me lo domandassi. Con quelle potremmo ricostruirci una nuova vita lontano da qui… Potremmo anche raggiungere la mia città, dalla quale manco da tempo: Venezia sa accogliere gente di ogni razza e di ogni provenienza.»

Con passi lenti, Humarawa giunse al centro della stanza. Era vestito con l’elmo e i calzari da samurai. Il kimono non era coperto dall’armatura, lasciando indifeso il ventre del guerriero. I capelli erano raccolti in una coda. Al suo fianco pendeva l’inseparabile katana e le mani stringevano lo spadino.

Il rituale del seppuku prevedeva che un assistente si ponesse alle spalle dell’aspirante suicida: il suo compito sarebbe stato quello di mozzargli il capo, qualora la morte per sventramento non fosse stata immediata.

Una delle guardie che Ashikaga aveva lasciato nel castello di Matsue si pose alle spalle di Humarawa, mentre questi si inginocchiava su un cuscino in seta. L’altra aveva preso posto di lato, vicino all’unica uscita della stanza.

Muovendosi con solennità, Hito estrasse lo spadino dalla custodia, poi, all’improvviso, agì con la rapidità di un fulmine. La lama balenò nell’aria, mentre il samurai si voltava di scatto, trafiggendo la guardia del Grande Generale che gli stava alle spalle. Humarawa estrasse la katana , respingendo con perfette parate l’assalto della seconda guardia.

«Se ti dovesse rimanere del fiato in gola, una volta che ti avrò staccato il capo, riferisci al tuo signore che Hito Humarawa non è più alle sue dipendenze.» Così dicendo, Humarawa roteò la katana in aria e menò un fendente dall’alto verso il basso. Gli schizzi di sangue imbrattarono il muro, mentre la testa dell’avversario veniva divisa in due dalla lama del daimyo.

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