Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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«Le dispiace se mi siedo?» chiese il maggiore del Mossad.

«Si accomodi pure, prego», rispose Kuniko con aria distratta.

Chiunque li avesse visti parlare avrebbe pensato a una conversazione occasionale, una delle tante che si intrattengono per passare il tempo su un vagone della metropolitana o, appunto, in un fast-food affollato.

Dieci minuti più tardi Kuniko salutò il suo compagno di tavolo con cortesia e si allontanò dal locale.

Roma imperiale, anno di Roma 801 (48 d.C.)

I fasti dell’Urbe erano capaci di lasciare buona parte dei provinciali a bocca aperta. Lisicrate stesso, sebbene fosse vissuto nella splendida Alessandria, si trovava spesso ad ammirare incantato statue in marmo, fontane zampillanti, giardini curati, maestosi monumenti, vaste e sfarzose dimore patrizie.

E proprio all’interno di una di queste dimore lo avevano condotto, non appena giunto da Ostia in città.

La proprietà di Agrippina era formata da un corpo principale, sede della residenza patrizia, e da due fabbricati secondari, dove alloggiavano tutti quelli che si occupavano, a vario titolo, della gestione domestica.

La villa vera e propria era di grandi dimensioni, dotata di almeno una dozzina di stanze da letto. Gli altri due edifici non erano altrettanto lussuosi, ma erano dimore confortevoli e comode, a pochi passi di distanza dalla casa principale. Il giovane precettore greco fu accompagnato in uno di questi.

Lisicrate stava mettendo ordine tra i pochi effetti personali e i molti scritti del suo bagaglio. La camera che gli era stata affidata era ampia e luminosa. Uno schiavo dalla carnagione scura lo andò a chiamare nel tardo pomeriggio.

«Giulia Litia vuole parlarti», lo avvertì l’africano con tono ossequioso.

I pochi anni che erano trascorsi dal tempo dei loro ferventi incontri avevano scavato rughe profonde sul bel viso di Giulia. Lisicrate, invece, aveva perso quanto restava della sua pubertà ed era diventato un uomo dal fisico atletico e prestante.

Si salutarono con affettuosa complicità, ricordando il breve soggiorno della dama di compagnia di Agrippina ad Alessandria.

«Tra poco ti condurrò a conoscere la mia signora», aveva detto Giulia venendo al dunque. «Penso sia necessario che tu sappia qualcosa di più sul giovane Lucio Domizio: sarà anche tua cura educarlo e instradarlo alla vita.»

Lisicrate si preparò ad ascoltare.

«Due segni importanti accompagnarono la venuta al mondo del figlio di Gneo Domizio Enobarbo e Agrippina, il diciottesimo giorno prima delle calende di gennaio. Il bimbo nacque infatti con parto podalico, fatto che astrologi e indovini considerarono come nefasto. Questa nefasta premonizione venne immediatamente bilanciata da un raggio di sole che, in quell’alba, nella casa della gente Claudia ad Anzio, prima di toccare terra, illuminò il neonato. Ricordo che la cerimonia dell’imposizione del nome fu una vera e propria festa per l’intera città: ad Anzio giunse l’imperatore Gaio Cesare Caligola, zio del bambino. E lo stesso imperatore, sentita la sorella, gli diede il nome di Lucio Domizio Enobarbo. I suoi primi anni di vita non furono certo facili: rimase orfano di padre a tre anni e la sua educazione risentì della diffidenza dell’imperatore nei confronti di Agrippina. Caligola sembrava atterrito dalla forte personalità della sorella e la sua sfiducia si manifestò nel vedere congiure in ogni dove, ordite anche da lei. Così la mia signora venne esiliata a Ponza, dove io la seguii e dove Domizia Lepida, zia paterna di Lucio Domizio, si prese cura del bambino. In quel periodo i suoi precettori furono un barbiere e un ballerino. Oggi, invece, l’educazione del giovane Lucio Domizio può godere dei migliori pedagoghi dell’impero. Infatti la situazione è del tutto cambiata: poco dopo l’uccisione di Caligola, Agrippina è stata richiamata dall’esilio, rientrando altresì in possesso del suo enorme patrimonio degno di un’erede della gente Augusta. L’imperatore Claudio sembra molto affezionato al figlio di sua nipote e non perde occasione per introdurre Lucio Domizio in società. Il giovane di cui ti occuperai è intelligente e sveglio, sano e forte, anche se talvolta mostra i segni delle alterne vicende che hanno caratterizzato la sua breve esistenza. Non credo avrai grandi difficoltà nell’insegnamento.»

«Raccontami ora di Agrippina», disse Lisicrate. «Mi sembra abbia una certa influenza su Lucio Domizio.»

«Direi qualcosa di più. Agrippina è una donna forte, volitiva e abile. Si trova ottimamente a proprio agio nel ruolo di discendente di una famiglia imperiale. È due volte vedova, a soli trentatré anni. Soprattutto in seguito alla scomparsa del secondo marito, l’oratore Sallustio Passieno Crispo, ci sono voci che vedrebbero la mia signora nelle vesti di esperta avvelenatrice. Oggi pare che Lucio Domizio sia l’unico scopo della sua vita: l’eccellente educazione pretesa dalla madre potrebbe condurlo verso le più alte sfere della politica e dell’impero. Non mi stupirei di vederlo un giorno seduto su uno scranno del Senato o, forse… forse qualche cosa di più…»

«Che cosa vuoi dire con questo, Giulia?» domandò Lisicrate che ben sapeva quanto poche fossero le cariche più prestigiose di quella di senatore.

«Non farmi dire cose che non voglio dire, Lisicrate, e seguimi fino negli appartamenti di Agrippina per la presentazione ufficiale. Conoscerai anche Lucio Anneo Seneca, che la mia signora ha scelto come responsabile dell’educazione del figlio. Ufficialmente dovrebbe trovarsi in Corsica, dove è stato condannato anni fa all’esilio. Pare che l’imperatore, per intercessione di Agrippina e contro il parere di sua moglie Messalina, sia propenso alla grazia: ormai dovrebbe essere questione di giorni. Nell’attesa della riabilitazione, Seneca sembra aver intensificato le sue visite clandestine in questa villa.»

Così dicendo, Giulia uscì dalla stanza e si avviò lungo il corridoio che conduceva agli appartamenti nobili della villa.

«Non voglio indurti a svelare segreti, Giulia», insisté Lisicrate seguendola. «Vorrei soltanto cercare di capire alcune sfumature che potrebbero rivelarsi molto utili al mio lavoro.»

«Qui tutto è difficile e precario, mio giovane amico. Chi oggi è sul trono domani potrebbe essere trafitto da un pugnale o avvelenato da una pozione. Non fidarti mai di nessuno. Parla poco e solo quando non puoi farne a meno. Se ti è possibile, non schierarti mai apertamente, nemmeno al fianco di un imperatore: la sua carica è incerta quanto quella dell’ultimo dei liberti. E non prendere quello che dico come un gesto di irriverenza o insubordinazione: in città si mormora che siano in molti i senatori che non condividono la decisione di Claudio di affidare settori importanti dell’amministrazione proprio a dei liberti. Circola il malcontento tra le alte sfere politiche, e i comportamenti a dir poco licenziosi di Messalina, moglie dell’imperatore, sembrano essere il motivo principe per mettere in cattiva luce l’intero operato del successore di Caligola. Se davvero Claudio è così intelligente e riflessivo come ha mostrato di essere, credo sia tempo che lui corra ai ripari. Ma, adesso, seguimi in silenzio. Siamo quasi arrivati.»

La sala dove venivano servite le cene era molto spaziosa. I triclini stavano accostati sugli angoli a gruppi di tre, e lasciavano aperto un solo lato dal quale i servitori raggiungevano la tavola posta al centro dei tre divani. Nella sala Lisicrate ne contò almeno ventuno, di forma semicircolare, chiamati stibadia , posti come la moda delle architetture d’interni voleva per le case patrizie. Tutti erano impreziositi, sul ricciolo in corrispondenza al capo del commensale, da una testa di animale mitologico scolpita in bronzo. Gli ampi spazi lasciavano comunque immaginare che quella sala fosse in grado, all’occorrenza, di accogliere almeno una settantina di banchettanti. I muri erano decorati con pitture simmetriche in rosso pompeiano.

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