Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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Roma imperiale, anno di Roma 801 (48 d.C.)

Giulia Litia rimase a osservare Pallante, il potente liberto vicino all’imperatore Claudio, che usciva dalle stanze private della sua signora.

Da quando Agrippina era stata richiamata dall’esilio a cui l’aveva costretta il fratello Caligola, si erano andati via via intensificando i contatti che l’abile matrona tesseva per giungere a uno scopo che pareva noto a lei soltanto.

E, per raggiungerlo, la pronipote di Augusto era pronta a tutto.

«Giulia!» chiamò Agrippina dalla sua stanza da letto.

Agrippina era sdraiata, nuda. Il suo corpo statuario era adagiato su un fianco, i capelli scendevano con riflessi ramati sulle spalle. Il tempo non aveva scalfito la sua pelle di seta: gli anni e gli eventi della vita parevano essere scivolati sulla sua bellezza come acqua di fonte sulle rocce. Agrippina aveva trentatré anni, una condanna all’esilio e due vedovanze alle spalle. Unica traccia tangibile del passato era Lucio Domizio, il figlio avuto dal primo matrimonio: un bambino vivace con la chioma rosso scuro e gli occhi azzurri. Il fanciullo era per Agrippina ragione e mezzo per conseguire il suo scopo.

«Pallante fa al caso mio: è un uomo intelligente, spregiudicato e ambizioso. Sembra invaghito di me quanto basta per esaudire ogni mio desiderio. Mi è molto utile… Per il momento.» Giulia aiutò la sua signora a pettinarsi, mentre questa, come una mantide religiosa, pensava a come sfruttare la persona con la quale aveva diviso il giaciglio sino a pochi istanti prima, per poi disfarsene. Giulia massaggiò la schiena di Agrippina con un unguento a base di miele, poi le porse una veste di colore azzurro pallido e la aiutò a indossarla. Fu quindi la volta dei gioielli, vistosi e tempestati di pietre preziose. La matrona teneva molto ad apparire splendida nell’incontro che avrebbe avuto, di lì a poco, con suo zio Claudio, imperatore di Roma.

«Pensa che sua madre lo chiamava mostro. Eppure Claudio è dotato di grande intelletto ed equilibrio. Peccato abbia sposato Messalina, donna licenziosa e senza freni.»

Giulia Litia sorrise dentro di sé: in quella stanza aveva visto passare generali e senatori, donne e fanciulli, e adesso lei si ritrovava ad ascoltare Agrippina mentre elargiva lezioni di morale. Forse era soltanto invidia, generata dalla profonda somiglianza tra i caratteri delle due donne, quella che Agrippina provava nei confronti della moglie dell’imperatore.

«Comunque il buon Pallante mi ha detto che l’amore di Messalina e Sillio sarà la goccia che farà traboccare il vaso: sembra che il liberto abbia convinto l’imperatore a condannarla per adulterio. E a questo punto Claudio avrà bisogno di una moglie…»

«Ecco lo scopo di mille strategie e azioni!» pensò Giulia.

«Chiedi ai precettori se possono concederti mio figlio Lucio Domizio per questa mattinata: vorrei portarlo con me dall’imperatore. A proposito di precettori… Ti ho sentita parlare ieri con Cherèmone di quel Lisicrate…»

Giulia Litia abbassò gli occhi e arrossì come una fanciulla. «Lisicrate è un giovane greco che ho avuto modo di conoscere nel corso della mia visita alla biblioteca di Alessandria. Ha un fisico da lottatore e un animo da poeta. Conosce ogni segreto della cultura: dicono che il suo svago principale sia quello di attingere insegnamenti dai testi contenuti nella biblioteca…»

«E, vista la tua reazione, mi sembra che il giovane greco sia propenso anche a un altro genere di svago, Giulia… Non sarebbe male se accanto a quei vecchi pozzi di scienza che si occupano dell’educazione di Lucio Domizio corresse anche della nuova linfa…»

Erano trascorsi due anni da quando Cherèmone era partito per Roma e Lisicrate si era ritrovato subissato dagli impegni derivanti dall’essere, di fatto, il responsabile della biblioteca di Alessandria.

Il messo romano si era rivolto agli inservienti con l’irruenza che spesso i rozzi conquistatori mostravano nei confronti dei provinciali.

«Cerco Lisicrate di Atene», aveva detto l’ufficiale ad alta voce all’interno di una delle sale di lettura.

«Lisicrate è davanti a te. Che cosa vuoi da lui?» aveva risposto il giovane greco.

«Ho l’ordine dell’imperatore Claudio di condurti con me a Roma», e gli consegnò un papiro arrotolato sul quale spiccava il sigillo imperiale.

Lisicrate lo aprì con dimestichezza e lesse con attenzione il dispaccio.

«Quanto tempo mi è concesso prima di prendere il mare?» chiese poi, all’apparenza per nulla turbato dal perentorio comando ricevuto.

«Pochi giorni. Tra una settimana al massimo la nave che mi ha condotto qui ripartirà alla volta di Ostia.»

Sette giorni più tardi il veliero militare romano doppiava l’imboccatura del porto di Alessandria. Lisicrate si voltò a osservare il gigantesco Faro e le maestose costruzioni in lontananza. Ripensò alle parole con cui l’imperatore lo chiamava al fianco di Cherèmone: «… per istruire ed educare alla vita mio nipote, Lucio Domizio Enobarbo, congiuntamente ai precettori che già si occupano di lui… »

La nave aveva percorso poche miglia quando, improvvisamente, i gabbiani cominciarono a volteggiare nel cielo. Sembravano spuntati dal nulla e giravano facendo stridii acuti intorno a un punto ben circoscritto, là dove l’acqua pareva ribollire. Gli uccelli vi si gettarono in picchiata, sollevando spruzzi quando giunsero a contatto con il mare. Un branco di sgombri si spostava con grande velocità, quasi in superficie, mentre i gabbiani, dall’alto, costituivano la minore delle minacce: Lisicrate distinse perfettamente alcune sagome scure che nuotavano sotto il branco, la vera causa che aveva spinto gli sgombri impazziti verso il pelo dell’acqua. I giganteschi tonni si avventavano sulle prede; eccitati dalla mattanza si esibivano in piroette e attacchi repentini e sanguinari a pochi passi dalla murata della nave. Uno dei predatori balzò fuori dalle onde, rimanendo immobile per un istante, sospeso sopra il suo elemento naturale. Poi ricadde pesantemente, sollevando uno spruzzo che giunse a lambire il ponte della nave. Lisicrate si ritrasse dalla fiancata quando ormai la schiuma lo aveva raggiunto. Con stupore si accorse che la sua toga bianca era costellata di gocce rosate: il sangue degli sgombri assaliti si era mischiato al mare.

Lisicrate interpretò l’accaduto come un presagio di cambiamento, di nuova vita. Una vita che però avrebbe visto anime candide macchiarsi di sangue.

Isole Egadi, ottobre 2001

Lo scirocco aveva battuto la parte meridionale dell’isola per tre giorni e tre notti. Il C’est Dommage era rimasto in rada, riparato dalla furia del mare e del vento, nella baia di Cala Rossa.

«Secoli di storia ci osservano…» disse l’ammiraglio, parafrasando Napoleone, mentre piccole creste bianche correvano lungo le fiancate del catamarano. «La leggenda dice che il nome di questa baia è dovuto al sangue di romani e punici che si affrontarono in una delle più grandi battaglie navali dell’antichità.»

«Già», intervenne Vittard, «si dice che andarono perdute almeno un migliaio di imbarcazioni.»

«… e nonostante un numero così rilevante di naufragi, i relitti individuati nella zona rimangono scarsi.»

«Come spiega questo fatto, ammiraglio?»

«Anzitutto non è mai stata predisposta una vera e propria campagna archeologica: le scoperte sono frutto di casuali ritrovamenti di singoli escursionisti subacquei. C’è poi da dire che molto spesso le navi da battaglia antiche colavano a picco dopo essere state letteralmente consumate da incendi appiccati dal lancio di proiettili e frecce incendiarie. Terza, ma non ultima ragione, le mutazioni dei fondali: i pescatori locali dicono che spesso, dopo una mareggiata, le profondità sono diverse anche di qualche metro a causa dello spostamento di ingenti quantitativi di sabbia che si muovono insieme con le correnti sottomarine.»

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