«Speriamo che lo scirocco che ha imperversato in questi giorni abbia provocato degli sconquassi anche sott’acqua, mettendo in luce qualche reperto», commentò Vittard.
«Se così non fosse, credo sia il caso di interrompere le nostre ricerche, Henry», aggiunse Grandi con un’aria sconsolata.
«Ammiraglio», disse Vittard con tono risoluto, «forse la sua iniziale euforia mi ha contagiato. I manufatti che mi ha mostrato provengono certamente dalla zona che abbiamo ispezionato. E io sono sempre più convinto che là sotto ci sia qualche cosa. Magari un relitto coperto da tonnellate di sabbia. Dobbiamo soltanto avere pazienza.»
«Certo, Henry. Chi meglio di me, che ho creduto in quest’impresa sin da quando ho fatto il primo ritrovamento diversi anni fa, può darle ragione? È altrettanto vero che i dieci giorni che ci eravamo prefissati come periodo di ricerca scadono proprio oggi. E l’unico oggetto che siamo riusciti a portare in superficie è una testa di lupo medievale. Nulla a che vedere con una nave imperiale romana. Io non posso chiedere a lei e alla sua imbarcazione di rimanere a mia disposizione fino a che il sogno della mia vita non si sia avverato.»
«Per sempre no di certo, ma io sarei propenso a posticipare la nostra partenza di tre giorni, sempre ammesso che lei non abbia impegni, ammiraglio…» Così dicendo, Vittard guardò Grandi con un’aria complice e continuò: «Le previsioni dicono che il tempo sta migliorando, anche se è prevista una nuova buriana, questa volta proveniente da nord. Sarà meglio tornare sul luogo delle ricerche».
Un’ora più tardi, Alar lasciò brandeggiare l’ancora dal bordo dello sperone di dritta. Quando Vittard fece cenno di ammainare, il pesante rostro di ferro scivolò nell’acqua azzurra di punta Marsala.
A circa un quarto di miglio dal catamarano si trovava un gommone dotato di due potenti fuoribordo. Grandi lo riconobbe quasi subito: si trattava della stessa imbarcazione che era transitata a fianco del C’est Dommage prima della sciroccata, un gommone che aveva a bordo due giapponesi.
Giappone, primavera 1333
Nel corso dei due anni in cui aveva vissuto fianco a fianco con Hito Humarawa, Alessandro Crespi si era dimostrato una pedina insostituibile per il daimyo della prefettura di Matsue. Il mercante veneziano non era un guerriero e per questo Humarawa lo aveva dispensato dalle scorrerie piratesche, alle quali lo stesso samurai partecipava sempre più raramente. In quel breve tempo, Crespi era stato incaricato del controllo sull’intera amministrazione della provincia, insieme con la gestione dei cospicui introiti non ufficiali che i wako versavano nelle casse personali del daimyo.
Gli incontri e la corrispondenza tra Humarawa e il Grande Generale Ashikaga si erano andati intensificando: il piano per restaurare l’imperatore era ormai pronto, e il daimyo di Matsue avrebbe partecipato da protagonista alla congiura contro lo shogun Hojo.
Quelle che potevano sembrare sporadiche azioni di guerriglia contro il potere degli Hojo stavano assumendo proporzioni da non sottovalutare. E, nonostante la sua indiscussa superiorità, un combattente esperto come lo shogun non avrebbe potuto trascurarle a lungo.
Gli attacchi a guarnigioni isolate e lontane dai centri di comando potevano essere interpretati come disperati tentativi suicidi dei fedeli dell’imperatore: null’altro che degli inutili sacrifici, ben lungi dalla possibilità di restaurare il potere imperiale. Per quanto ne sapevano lo shogun Hojo e i suoi, Go-Daigo era lontano da tutto e da tutti, isolato in ogni senso nel mezzo del mar del Giappone.
Quando però le pedine più importanti a difesa dei diritti del legittimo sovrano scesero in campo, gli strateghi al servizio dello shogun si mostrarono preoccupati: Go-Daigo e i suoi seguaci stavano preparando un nuovo tentativo di restaurazione in grande stile.
Ma come sempre, si mormorava tra i fedeli agli Hojo, tutto si sarebbe risolto in un bagno di sangue per le male organizzate milizie imperiali.
Il principe Morinaga, primogenito dell’imperatore Go-Daigo, era calato dalle montagne del distretto di Yoshino, riuscendo a infrangere in più punti il fronte delle truppe shogunali. In tutt’altra zona combatteva invece il valoroso Masashige, fedelissimo samurai devoto all’imperatore, che aveva inchiodato gli eserciti nemici attorno alla fortezza di Chihaya.
Tuttavia queste sembravano essere le minori preoccupazioni nelle strategie dello shogun Hojo: l’imperatore stesso aveva deciso di interrompere il proprio esilio e, accompagnato dalle calde brezze primaverili, era sbarcato con un nutrito contingente nei pressi della città di Hoki. Quella era la vera minaccia: Go-Daigo non aveva mai perso, presso il suo popolo, quel carisma ammantato di divinità che accompagnava la figura imperiale.
Hojo aveva così deciso che fosse tempo di agire senza indugio e attaccare frontalmente i fedeli a Go-Daigo. Sulla carta, nulla lasciava presagire una sconfitta dello shogun.
Dalla città di Kyoto si erano mosse due armate, comandate una dal Grande Generale Ashikaga, l’altra dal generale Nagoshi.
Hito Humarawa rimase per un istante al centro della strada: cavalcava il suo destriero, bianco come la luna, e indossava l’armatura da samurai. La maschera da combattimento raffigurante una divinità infernale era calata sul volto. La boscaglia fitta che costeggiava il sentiero verso Hoki sembrava aver inghiottito gli oltre tremila uomini al suo comando. Il daimyo si accertò che nessuno dei suoi risultasse visibile a chi percorreva il viottolo, quindi spronò il cavallo, andandosi a nascondere lui stesso nel sottobosco.
Il generale Nagoshi era alla testa delle truppe dello shogun. La sua mente stava elaborando piani per l’imminente scontro con le milizie dell’imperatore. Gli stendardi vibravano al vento teso e caldo che riusciva a superare la barriera di alberi bassi che fiancheggiavano la strada. Gli uomini seguivano il condottiero con le armi inguainate e gli archi a tracolla. Erano estenuati dal lungo cammino.
Hito Humarawa abbassò la mano. Una pioggia di frecce si abbatté sul serpente di soldati in marcia. Quasi contemporaneamente al secondo lancio, un’orda inferocita uscì dalla vegetazione. I guerrieri agli ordini di Humarawa urlavano brandendo le spade. Le truppe dello shogun erano in preda al panico: nessuno si aspettava un’imboscata.
Humarawa si fece largo tra i soldati in fuga: spronava il cavallo con inarrestabile vigore e mulinava la katana. Quei pochi che avevano il coraggio di pararsi davanti al suo destriero al galoppo dovevano fare i conti con la spada affilata del samurai. In breve il daimyo raggiunse la testa del contingente nemico.
Il generale Nagoshi tentava inutilmente di incitare i suoi alla difesa. Humarawa gli fu addosso prendendolo alle spalle. Il sibilo della lama coprì per un istante il rumore del galoppo del cavallo. La testa del generale Nagoshi rotolò a terra come una palla di stracci imbrattata di sangue.
Humarawa raccolse il macabro trofeo, lo infilzò sulla punta della katana e, tenendolo in alto, guidò il destriero tra gli uomini impegnati in un sanguinoso corpo a corpo. Quello fu il segnale della disfatta per le truppe fedeli allo shogun: in molti abbandonarono le armi sul terreno e coloro che non si arrendevano supplicando pietà si davano alla fuga tra la vegetazione.
Il generale Ashikaga era accampato con i suoi nei pressi della città di Kyoto. Quando i primi superstiti dell’imboscata vi giunsero, capì che il suo piano destabilizzante aveva avuto successo. Soltanto a questo punto il generale gettò la maschera e invitò i suoi alla diserzione.
«Lo shogun Hojo non rappresenta più la massima istituzione giapponese», disse Ashikaga al suo esercito. «Noi abbiamo giurato fedeltà all’imperatore Go-Daigo e, nel suo nome, marceremo verso Kyoto.»
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