Immediatamente gli uomini si misero al lavoro per assicurare tra loro le due navi con una robusta catena di ferro. Allontanandosi, le imbarcazioni del Muqatil avrebbero teso la catena in prossimità dello scontro. Sfilando poi lungo i bordi opposti di un’imbarcazione nemica, le due navi avrebbero incastrato gli infedeli in una trappola senza scampo.
«Guarda, Yousef, hanno cambiato rotta e stanno fuggendo», disse il Muqatil al suo anziano compagno.
Tutti gli uomini erano rivolti verso settentrione e seguivano le fasi dell’inseguimento, quando all’improvviso, di nuovo, gli infedeli invertirono la rotta, dirigendo risolutamente contro di loro.
«Altre vele, almeno sei, dritte di prora!» gridò la vedetta con la voce velata di apprensione.
«Una trappola!» esclamò il Muqatil e, d’istinto, il suo sguardo corse in direzione della terraferma per cercare una via di scampo. Altre tre navi cristiane dirigevano verso di loro da sud. Erano apparse dal nulla, traendo vantaggio nell’inseguimento dai brevi istanti di distrazione dell’equipaggio moresco.
Lo scontro era a questo punto inevitabile, impari e dall’esito sin troppo scontato. Il Muqatil ordinò ai suoi di prepararsi: prima di finire in fondo al mare, avrebbero cercato di mandare in bocca ai pesci il più gran numero di infedeli.
Le due navi con le insegne dell’emirato di Tabarqa diressero verso sud: da quella direzione, infatti, proveniva il pericolo minore. Con ogni probabilità, le altre navi che provavano a raggiungerli da settentrione sarebbero arrivate loro addosso mentre ingaggiavano il combattimento con le tre che veleggiavano da sud. E a quel punto i seguaci del Muqatil non avrebbero potuto che soggiacere alla schiacciante superiorità numerica del nemico.
La battaglia era iniziata da poco e già una delle tre navi cristiane ardeva come un fuscello: i lanci di fuoco greco dalla catapulta posta a prora della galea del Muqatil erano stati precisi e letali. Il giovane emiro osservò il giardinetto di poppa di una delle due navi nemiche. ’Abd al-Hisàm, suo perfido cugino, stava in piedi a fianco del timoniere e impartiva gli ordini per sfuggire alle due navi assalitrici quel tanto che bastava fino al momento in cui sarebbero giunti i rinforzi. L’odio montò nell’animo del Muqatil come l’onda del mare in tempesta quando corre verso la riva.
«Prendiamo quel traditore, prima che arrivino gli altri a dar loro manforte», incitò i suoi.
Le due galee nemiche, dopo una serie di virate, dirigevano ora verso nord. Le altre sei navi da battaglia e le due mercantili erano sempre più vicine.
La nave del Muqatil, spinta dalle vele e dall’estremo sacrificio dei rematori, guadagnava terreno. Tutti a bordo sapevano che sarebbero andati incontro alla morte, ma nessuno aveva intenzione di lasciarsi vincere dalla paura o, peggio, di arrendersi.
La galea di ’Abd al-Hisàm compì una manovra errata, cedendo ulteriore terreno agli inseguitori. Adesso il Muqatil poteva vedere lo sguardo terrorizzato del cugino.
«Guarda, Yousef, il coniglio sta scappando, ma noi lo prenderemo prima che si senta al sicuro.» Il volto dell’anziano combattente di mille battaglie mostrava un’espressione tesa ma, in qualche misura, soddisfatta: ’Abd al-Hisàm stava per pagare il prezzo del tradimento. Il sibilo che lacerò l’aria si spense nello stesso istante in cui la freccia incendiaria si andava a conficcare nel petto di Yousef. L’uomo si accasciò senza un lamento, mentre il fuoco e il fumo danzavano attorno all’asta della freccia.
Il Muqatil si gettò su di lui, con un sacco spense il fuoco, poi cercò di rianimare Yousef. In quel momento si accorse che non c’era più nulla da fare: il dardo aveva trapassato il cuore del suo anziano compagno e maestro.
«Anche per questo pagherai!» Gli occhi del Muqatil erano due fessure piene d’odio, mentre osservava le goffe manovre della nave di ’Abd al-Hisàm in fuga.
Il rumore dei remi che si spezzavano, schiacciati tra le fiancate delle navi ormai a contatto, sovrastò per alcuni istanti le urla dei marinai. L’emiro fu tra i primi a scavalcare la battagliola e lanciarsi sul ponte dell’imbarcazione nemica. Come una belva inferocita prese a menar fendenti di sciabola, cercando con lo sguardo il cugino.
Improvvisamente lo individuò nella mischia. Tre dei suoi gli facevano da scudo, proteggendolo dagli assalitori.
Il Muqatil pareva non curarsi di chi aveva il coraggio di sbarrargli il passo: giostrava la sua spada lorda di sangue come se non ne sentisse il peso. Sotto i suoi colpi caddero alcuni uomini prima che riuscisse a raggiungere il cugino e le sue guardie, arroccati sulla prora.
Dapprima il Muqatil affrontò i tre che proteggevano il traditore. In breve ebbe ragione su due di loro, mentre il terzo se la dava a gambe. Quindi fissò negli occhi ’Abd al-Hisàm.
«Preparati a morire», disse il Muqatil con la voce rotta dall’affanno e menò un primo fendente, che andò a vuoto. Le armi cozzarono con violenza e i duellanti assunsero movenze più simili a quelle di una danza che a un combattimento all’ultimo sangue. Il Muqatil parò una stoccata del cugino e, rapido come un serpente del deserto, lasciò a sua volta partire un affondo potente. La lama penetrò la leggera corazza in pelle e una breccia rossa di sangue si aprì sul petto di ’Abd al-Hisàm. Poi il Muqatil roteò su se stesso, tenendo la sciabola alta sopra la testa, per caricare l’affondo finale.
Concentrato nel combattimento, non si accorse di una figura scivolata alle sue spalle. Quando uno dei suoi uomini cercò di metterlo in guardia gridandogli di stare attento, era ormai troppo tardi.
Ibrahim, l’uomo che aveva svelato al nemico ogni mossa del Muqatil, gli era balzato addosso sorprendendolo alle spalle.
La lama del coltello brillò per un istante alla luce, prima di andarsi a conficcare nella schiena del Muqatil.
La fitta di dolore fu tale da annebbiargli la vista; ciononostante il giovane si scrollò di dosso l’assalitore e lo trafisse con la rabbia di chi vede la vittoria compromessa per un futile particolare. Quindi si accasciò, tentando di tamponarsi la ferita con le mani lorde di sangue.
Vedere il Muqatil ferito rese ancor più feroci i suoi uomini: con un impeto inarrestabile travolsero ogni resistenza sulla galea.
Subito l’emiro venne trasportato a bordo della sua nave, prima che questa si staccasse da quella arrembata, ormai in preda alle fiamme appiccate dall’equipaggio moresco. La ferita perdeva molto sangue. Dopo averlo adagiato sotto la grande tenda di poppa, uno degli uomini si prese cura di lui.
«È grave? Posso riprendere il combattimento?» mormorò il Muqatil con un filo di voce, cercando invano di alzarsi a sedere.
«Hai perso molto sangue, emiro. Proverò a medicarti.»
«Che cosa è successo? Che ne è stato di ’Abd al-Hisàm? Chi mi ha assalito da dietro?»
«Tuo cugino si è gettato in acqua. Ormai avrà raggiunto la sua nave sul fondo del mare. Il tuo assalitore era Ibrahim, mio signore. Si trovava a bordo della nave nemica.»
Nella mente del Muqatil, poco prima che si annebbiasse, si fecero chiari i contorni del tradimento. Poi perse i sensi.
Forse fu meglio così: non dovette assistere all’atrocità della sconfitta.
Le sei navi da guerra raggiunsero in breve la galea moresca, rimasta gravemente danneggiata dopo l’assalto, e impossibilitata a governare. Le imbarcazioni degli infedeli circondarono la nave ferita e procedettero all’arrembaggio solo dopo averne lungamente bombardato il ponte. Poi, anche la nave voluta e progettata dal Muqatil venne inghiottita dalle acque mentre ardeva come una torcia.
Gli unici resti del veliero che aveva terrorizzato le flotte cristiane erano alcuni legni galleggianti alla deriva.
«Abbordate il relitto!» fu l’ordine che il comandante della piccola nave da carico impartì ai suoi.
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